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Category: Blog

BlogCultura

Depressione: quando la luce si spegne

 “Di quei tempi ero fatto per sprofondare ad ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.”

Luigi Pirandello

 

La depressione è un male dilagante, molto è stato detto e scritto sull’argomento: articoli, libri, da quelli tecnici, ai manuali, sino ad arrivare alle storie di chi l’ha combattuta personalmente, fino a sconfiggerla. Quando pensiamo alla depressione, immaginiamo una persona triste, che non si prende cura di sé, scontrosa, che si chiude al rapporto con l’altro, una persona che fatica ad alzarsi dal letto per fare anche le cose più semplici: lavarsi, andare a lavorare, prepararsi da magiare, persino abbracciare una persona a cui vogliamo bene e dimostrare il nostro affetto, diventa sinonimo di fatica, quasi come se le emozioni non riuscissero a oltrepassare lo strato di epidermide per arrivare a toccare la nostra parte più profonda.

 C’è chi ha paragonata la depressione a un cane nero, che ti azzanna alla gola, ferendoti a morte, chi l’ha descritta come assenza, come vuoto assoluto, come qualcosa che ti lacera dentro, fino a rosicare la parte migliore di te, quella stessa parte che ti fa venire voglia di alzarti al mattino, quella che ti fa venire voglia di stringere fra le braccia il tuo cane, o un bambino, anche quando il bambino in questione è tuo figlio, che ami più di qualsiasi cosa al mondo.

Sentirsi depressi è una condizione che svilisce, ci estranea dal mondo: penso alla sua complessità, a tutte le sue sfaccettature, ai diversi modi con i quali può aggrapparsi a qualcuno, risucchiandolo in un vortice di pensieri negativi, di preoccupazioni ossessive, fino al totale annientamento.

 Quante volte confondiamo la tristezza con la depressione: abusiamo di questa parola, basta un momento di tristezza, o di malinconia, che ci definiamo depressi. In realtà essere tristi capita a tuti, succede spesso di avere un momento di sconforto, un momento dove siamo sconsolati, perché ci è successo qualcosa di brutto.

Essere tristi, non è come essere depressi.

Cosa ci aiuta a capire, quando quello con cui combattiamo tutti i giorni è il cane nero che ci azzanna alla gola, oppure è soltanto un brutto periodo? Cosa differenzia la vera depressione dalla tristezza?

La tristezza è un’emozione: quando siamo tristi, seppur con fatica, riusciamo a portare avanti la nostra vita: ci alziamo, ci laviamo, andiamo a lavoro, riusciamo nel bene o nel male a prenderci cura di noi stessi. Abbiamo consapevolezza del nostro malessere, lo riconosciamo, spesso riusciamo a capire da dove viene, da dove nasce la sofferenza che ci portiamo dentro, siamo in grado di darle un nome, di darle un significato all’interno della nostra vita.

Quando siamo depressi no. La depressione, quella vera, ci limita in tutto, fino a farci abbandonare tutto ciò che ci rende vivi.

Ci annulla completamente, siamo come anestetizzati, le nostre emozioni sono appiattite, non sappiamo come restare a galla, non riusciamo a trovare un’ancora di salvezza alla quale aggrapparci, nell’oceano nero in cui affoghiamo. Tutta la nostra vita si ferma, come se qualcuno avesse deciso di chiuderci a chiave in una stanza, senza rumore, al buio, con l’impossibilità di uscire.

La depressione non è come un momento di tristezza, la depressione è una vera e propria malattia.

Ma siamo certi che la depressione sia soltanto questo? Siamo sicuri che sia soltanto legata a stati d’animo così angosciosi, così evidenti, che piano piano ci avvelenano, che ci paralizzano, rispetto a quelle che sono le nostre emozioni e le nostre azioni quotidiane?

 La depressione non è soltanto quella che si palesa a noi in maniera così evidente, esiste un cane nero che può nascondersi dietro un viso truccato, dietro un manager di successo, dietro un sorriso, dietro un malessere fisico a cui spesso non sappiamo dare una spiegazione: la depressione quando non si mostra in maniera evidente si chiama mascherata, proprio perché nasconde la sua presenza nel corpo dolorante.

Il cane nero, ci parla attraverso dei malesseri apparentemente di altra natura, come ad esempio: il mal di testa, i disturbi gastrointestinali, il mal di schiena, una spossatezza psicofisica generalizzata. È allora che cerchiamo di trovare la causa dei nostri dolori in patologie organiche, in malattie che poco hanno a che fare con la nostra sofferenza, proprio perché fatichiamo a identificare il nostro malessere: la depressione, quella mascherata, come quella che si palesa chiaramente ai nostri occhi, è subdola.

Oltre al vuoto, all’assenza assoluta, quando siamo malati quello che percepiamo è il senso di colpa: ci colpevolizziamo perché non riusciamo a reagire, perché non riusciamo a prenderci cura di noi stessi e delle persone che abbiamo accanto a cui vogliamo bene.

Ci alziamo una mattina, pensiamo che da quel giorno sarà diverso, perché dobbiamo impegnarci, perché ce la dobbiamo fare a tirarci fuori dal vortice nero nel quale siamo piombati, ma poi arriva la sera, e la sensazione di fallimento è cocente come lava.

La delusione è su due fronti: da una parte ci sentiamo appunto dei falliti, e dall’altra ci sentiamo colpevolizzati da chi abbiamo intorno, da chi non si spiega la nostra mancanza di forza, perché la convinzione, è che basterebbe soltanto un pezzettino, ma giusto un pezzettino di volontà in più, per tirarci fuori dal nostro malessere. È allora che la sensazione di fallimento è ancora più profonda, la sensazione di essere da soli nella sofferenza si fa strada, acuendo ancora di più il nostro dolore.

Come lo spieghiamo alle persone che ci circondano, che noi vorremmo tirarci fuori da quel torpore che ci consuma giorno dopo giorno, ma che proprio non ce la facciamo? Come glielo spieghiamo alle persone, che se ci fanno sentire in colpa, ci fanno stare ancora più male, e che non è con la forza di volontà, che possiamo scrollarci di dosso questo peso che ci schiaccia il petto, come un macigno insopportabile, di cui non abbiamo consapevolezza e che in fondo non sappiamo da dove viene?

Non si esce dalla depressione con la forza di volontà, o con l’aiuto delle persone che ci circondano. L’affetto dei nostri cari non basta, rischiamo di cronicizzare ulteriormente qualcosa che già ci appiattisce, che ci annulla, procrastinando lo stato di malessere e allontanandoci sempre di più dalla vita.

La depressione, è una vera e propria malattia.

E come tutte le malattie va curata, chiedendo l’aiuto delle persone giuste: con un approccio combinato con i farmaci e la psicoterapia, quando la malattia è in uno stato molto avanzato, fino ad arrivare alla sola psicoterapia, quando siamo raggiungibili con le parole, quando le parole riescono ad attraversare quello schermo invisibile che ci ha isolato da noi stessi e dal mondo.

La depressione si cura, dalla depressione si guarisce…

 

Marilena De Cicco (psicoterapeuta)

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La Redazione 30 Settembre 2025 0
BlogCultura

QUANDO CHIEDERE AIUTO FA PAURA

 “Non è tanto dell’aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia che al bisogno ce ne potremo servire.”

Epicuro

 

Riesci a chiedere? Ti sei mai chiesto perché è così difficile chiedere aiuto? Cosa ci spinge a non rivolgerci a un’altra persona quando sentiamo di aver bisogno di aiuto?

Capita a ognuno di noi di attraversare un momento critico: un cambiamento di lavoro, un lutto improvviso, un periodo difficile con il/la nostro/a partner, l’adolescenza dei nostri figli e perché no, semplicemente una brutta giornata, una di quelle dove parlare con qualcuno è proprio quello di cui avremmo bisogno. A volte ci capita di sentirci soli, con la sensazione che nessuno possa comprendere il nostro stato d’animo, che nessuno possa comprendere la nostra sofferenza, che nessuno possa prenderci per mano e accompagnarci, fino a quando quella sensazione di malessere possa scomparire, o quanto meno attenuarsi.

È allora che spesso piuttosto che aprirci agli altri ci chiudiamo.

Ci chiudiamo nel nostro guscio, nel nostro mondo, ci proteggiamo, serrando bene tutte le porte, perché solo quello, per noi è un posto sicuro. Lo conosciamo: dal nostro piccolo mondo sappiamo bene cosa aspettarci, mai nessuno deluderà le nostre aspettative. Perché è proprio di questo che si tratta: uno dei motivi per cui ci chiudiamo in noi stessi è la paura della delusione, la pura che quella persona non ci potrà aiutare come vorremmo o addirittura che quella persona non lo faccia affatto. Si fa strada in noi la paura del rifiuto, la paura del giudizio, e la vergogna di non essere all’altezza della situazione, di non essere in grado di gestire da soli qualcosa che appartiene alla nostra vita: sensazione amplificata dall’ attenzione spasmodica per le performance, che ci definiscono e dalle reti sociali che tendono a diradarsi in favore di un individualismo sempre più pressante.

Ma da dove nasce la convinzione che nessuno ci aiuterà, la paura del giudizio e la vergona?

Sono molteplici le motivazioni che possono spingerci a chiudere la porta all’altro: molto dipende dalla nostra vita, da come abbiamo sentito sulla nostra pelle di poterci affidare a qualcuno senza essere delusi, senza essere giudicati. Una delle ragioni è certamente da ricercare nella nostra infanzia: una paura che viene da lontano, da quando eravamo bambini.

 Quando già da piccolini qualcuno ha deluso le nostre aspettative.

È all’interno della nostra famiglia di origine, all’interno di quelli che sono i nostri legami più autentici che si instaura il senso di fiducia verso l’altro.

È attraverso il rapporto con le nostre figure di accudimento primarie, che nella maggior parte dei casi sono rappresentate dai nostri genitori, che sperimentiamo per la prima volta la fiducia: sono loro a rispondere per primi alle nostre necessità, anche a quelle più intime. Quando cresciamo in una famiglia, dove l’attenzione per i nostri bisogni è stata soddisfatta, in un ambiente dove le nostre paure, come le nostre necessità, sono state accolte e ascoltate, impariamo ad avere fiducia, non solo in noi stessi ma anche nell’altro, impariamo ad aspettarci che l’altro possa rappresentare per noi fonte di vicinanza emotiva, impariamo che possiamo chiedere aiuto, che possiamo esporci, senza che questo rappresenti per noi motivo di paura o addirittura di sofferenza.

È necessario scardinare le nostre titubanze, arginare la diffidenza, mettere da parte la preoccupazione del rifiuto e della delusione, perché solo questo ci porta a uscire allo scoperto, a uscire dalla nostra zona confort e trovare la forza di chiedere: alla nostra famiglia, al nostro amico più caro o all’esperto, quando ci rendiamo conto che le persone che ci sono intorno e che ci vogliono bene non posseggono le giuste competenze per aiutarci. Mostrare all’altro le nostre debolezze, le nostre fragilità, senza la paura di sentirsi giudicati o sminuiti, aiuta in primis noi stessi: aumenta il nostro livello di consapevolezza e rafforza il sentimento di fiducia che abbiamo verso noi stessi e verso l’altro.

Perché è importante chiedere aiuto:

  • Chiedere aiuto crea relazioni: l’uomo è un essere sociale, in quanto tale non può vivere da solo, tutti noi, prima o poi abbiamo bisogno di aiuto.
  • Chiedere aiuto ci rende consapevoli dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze: dopo un rifiuto, dopo una delusione proviamo a darci un’altra possibilità.
  • Chiedere aiuto ci può sollevare da un problema al quale non riusciamo a trovare una soluzione: confrontarsi con l’altro, soprattutto un esperto, può aiutarci a dare una lettura diversa alla nostra realtà.

Impariamo a chiedere aiuto, impariamo a darci una chance: impariamo a fidarci di noi stessi e rivolgiamo la stessa fiducia a chi abbiamo scelto come nostro interlocutore.

 

Marilena De Cicco 

psicologa e psicoterapeuta sistemico-relazionale

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La Redazione 23 Settembre 2025 0
BeneventoBlogSannio

Il Centro storico di Pietrelcina e la possibilità del rinnovamento

La questione della “conservazione” è un problema cruciale e ineludibile, allo stesso tempo è un tema difficile da pensare e argomentare, per l’immediata diffidenza che suscita. Eppure dovrebbe essere intuitivo che la conservazione è un aspetto non marginale in qualsiasi riflessione che riguarda il paesaggio, specialmente quello urbano, perché dalla capacità di comprendere ciò che va conservato si può immaginare un futuro di rinnovamento e trasformazione senza provocare distruzioni.

Ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non riducibile a semplice superficie disponibile a qualsiasi manomissione. “Conservare” nel suo significato originario, deriva da “cum-serbare”, preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione. Si protegge ciò che si ha a cuore, solo ciò che conta per una comunità, l’esatto contrario di una concezione museale.

L’elaborazione di un pensiero del paesaggio e del territorio come identità singolare dei luoghi non può evitare di interrogarsi sul valore della conservazione. Di fronte a territori e aree urbane scempiate dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, i centri storici dei piccoli paesi, sembrano resistere al degrado estetico che inevitabilmente apre la strada al decadimento civile. È un dibattito vecchio e già in epoche passate, in un’Italia tutta proiettata verso l’espansione economica, sono stati in molti a lanciare l’allarme contro l’alterazione del paesaggio che non può essere ridotto né a cartolina patinata intoccabile, né a uno spazio da spianare e alterare a piacimento per soddisfare l’economia e il mercato. Un equilibrio esiste e va trovato. A titolo di esempio, quando i Talebani hanno fatto saltare le colossali statue del Buddha di Bamiyan, tutti comprendemmo che dietro a quel gesto iconoclasta, c’era una volontà di annichilimento e umiliazione di una tradizione millenaria.

I piccoli borghi si trovano sempre stretti tra due tendenze: l’eccessiva trasformazione e l’altrettanto eccessiva conservazione. Tornando alle nostre terre, ai luoghi che abitiamo e influenzano la vita, il centro storico di Pietrelcina, il famoso Castello, si trova purtroppo in una condizione di sospensione e spopolamento. “Ncoppa Castiello”, espressione dialettale che descrive lo spirito di chi ancora ci abita, sembra relegata a un lontano passato, quando il rione abbarbicato sulla roccia, era abitato da un’umanità eterogenea. Salendo a piedi dopo avere superato Porta Madonnella, si cammina tra vicoli e le piccole corti in uno spazio che sembra fisso nel tempo.

La dura legge dell’economia, il mutamento degli stili di vita, un modello globalista scellerato che non premia la prossimità e considera gli antichi territori come un luogo folkloristico da animare solo in determinati periodi dell’anno, non aiutano a immaginare un futuro per il Rione Castello. Persino i turisti sono spesso smarriti con le loro domande: “ancora ci abita qualcuno?” oppure “voi vivete qui?” – è la classica reazione quando una porta si apre o quando ci vedono con una busta della spesa mentre rientriamo in casa.

I luoghi sono sempre dotati di una propria “individualità”, quella che il geografo Vidal de La Blanche chiamava la “personalità”, anche quando sembriamo non accorgercene perché troppo distratti dalla routine quotidiana. Sono certi caratteri identitari a dare forma e valore a un determinato quartiere.

Per quanto riguarda il centro storico di Pietrelcina sono opportune alcune azioni per migliorare la situazione. Prima di tutto, andrebbe creato un sistema per facilitare, nei limiti del possibile, l’accesso ai disabili. Nelle giornate di maggiore affollamento turistico, si dovrebbe predisporre l’ingresso dei viaggiatori in piccoli gruppi a numero chiuso per evitare lo sgradevole effetto “collo di bottiglia” quando gli abitanti del centro storico sono costretti a farsi largo tra la folla di turisti per raggiungere le proprie abitazioni. Questo consentirebbe ai viaggiatori di evitare lunghe code e di potere visitare il borgo e le stanze dove visse Padre Pio da giovane con più tranquillità. Noi abitanti, custodi del centro storico, abbiamo il dovere di preservare i luoghi e di averne cura, i turisti hanno il diritto una visita serena.

Più ambiziosa è l’idea di una trasformazione del centro storico con l’esperimento di installazione di strumenti e tecnologie “off grid” per produrre e soddisfare in autonomia i carichi energetici. In questo modo il Rione Castello potrebbe diventare un borgo autonomo e digitalizzato con la possibilità di trasformare case e stanze disabitate in spazi di lavoro e comunità.

Il centro storico di Pietrelcina potrebbe rinascere: servono pazienza per la ricerca dei fondi pubblici e idee creative per sottrarlo al declino.

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La Redazione 4 Febbraio 2025 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne? Va benissimo, ma perché aumentano?

Riprendere a scrivere dopo tanto tempo non è facile ma l’argomento non solo è di attualità ma è, per me, importantissimo: quello sulla violenza sulle donne.

Lo scorso 25 novembre c’è stata la giornata dedicata…belle le foto sui social, gli speciali sui tg e sui giornali. Tutto bello ma a che cosa serve?

Mi spiego.

La sensibilizzazione va benissimo ma deve essere seguita da fatti concreti.

I dati sulle denunce non diminuiscono, ma anzi aumentano.

Cosi come gli omicidi, le minacce, le violenze e cosi via.

Perché?

Dopo aver attentamente e giornalisticamente studiato il fenomeno (eh già mi hanno insegnato a studiare prima di affermare determinate cose), anche dalla parte normativa -cioè partendo dalle denunce fino ad arrivare ai tribunali- posso tranquillamente affermare senza tema di smentita che, codice rosso o meno, dalla denuncia della potenziale vittima alla lettura del fascicolo da parte del magistrato -e qui parlo solo di lettura, non di atti coercitivi- passano dai quattro ai sei mesi.

Solo in caso di flagranza di reato, difficili in molti dei casi come quelli citati prima, si può e si fa qualcosa in più.

Sennò si va avanti con una, due, cinque, dieci denunce nel frattempo che il magistrato incaricato valuti l’ormai enorme fascicolo e decida poi qualcosa al riguardo.

Non va bene, non va per nulla bene.

Se ci fate caso il più delle volte, nei femminicidi, le vittime avevano fatto più denunce. Avevano allertato più volte le forze di Polizia…ma il tempo trascorso aveva poi permesso all’assassino di mettere in pratica i propositi maturati nel tempo.

Le forze dell’ordine non hanno colpe visto il vincolo che li lega alle decisioni di un giudice.

E neanche i consigli che danno (allontanatevi, non rispondete, non reagite e cosi via) possono essere d’aiuto in molti dei casi.

Torniamo ai magistrati? Anche loro non hanno colpa visto le tante pratiche che si accumulano sulle loro scrivanie e non possono essere smaltite in breve tempo.

Si è fatto tanto per la sensibilizzazione, come ho detto, si è attivato un numero verde il 1522, alcune procure hanno attivato sportelli appositi, la normativa al riguardo è stata aggiornata anche con l’aggiunta nel codice penale del femminicidio. Rimane il blackout dalle denunce al fare qualcosa al riguardo (ad esempio obbligo di non avvicinarsi alla persona).

Passa troppo tempo e questo tempo, molte volte, è fatale per le donne che devono subire.

 

Felice Presta

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La Redazione 30 Novembre 2024 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Inchiesta conoscitiva su attacchi di panico e altro negli ultimi tempi

Compito di un giornalista d’inchiesta è tenere sempre gli occhi e le orecchie bene aperte ed osservare ciò che succede intorno a lui e, quando si verifichino anomalie, cercare di dare delle risposte a queste.

Non sono un medico quindi cercherò di spiegare delle cose dal punto di vista del…paziente.

Negli ultimi tempi, diciamo nell’arco di un anno, con accelerazioni negli ultimi 6 mesi, c’è stato un incremento dei cosi detti STATI D’ANSIA E DI PANICO.

In che cosa consistono? Il corpo, sia pure respirando profondamente, sembra che non riceva abbastanza aria nei polmoni e quindi, il più delle volte, si è costretti a iperventilare per tornare alla normalità.

Non sempre ci si riesce e, appunto, si va nel panico.

In alcuni casi questi attacchi portano anche ad aritmie cardiache di media importanza.

Se siano connessi i due stati non lo so, per questo scrivo l’articolo, per fare in modo, con i vostri commenti, di avere un’idea più chiara di ciò che sta succedendo.

Potrei pensare che la presupposta mancanza di ossigeno, o la sensazione se cosi la vogliamo chiamare, porti poi ad un’accelerazione dei battiti del cuore e quindi all’aritmia. Questo lo dovrebbero poi spiegare i medici.

Questi sintomi, che ho avuto modo di constatare in prima persona, e poi con altre due persone vicine, vengono su uomini che hanno superato, o sono prossimi, alla cinquantina. Di donne non ne ho avuto notizie.

Questa anomalia è solo l’unica di tante altre verificatesi in un arco di tempo più ampio, diciamo due o tre anni e che vado ad elencare in ordine di casi.

  • Mal di schiena. Ma non quello normale bensì un dolore costante e persistente che può durare dai due ai sei mesi nella parte centrale alla fine della colonna vertebrale in prossimità del coccige. Una volta che il dolore è passato rimane, toccandosi, comunque quello sottocutaneo, come se si fosse preso una botta, e limita nei movimenti il corpo di chi lo ha subito.
  • Spossatezza, chiamiamola voglia di non fare nulla. Non si desidera uscire, stare con la gente, passeggiare eccetera. Io l’ho definita sindrome lockdown. Ma non è comunque uno stato mentale bensì fisico. E come se il fisico dicesse al corpo STAI A CASA. E quando non ci sei magari provoca un senso di insofferenza e indifferenza per il mondo fuori di essa.
  • Naso chiuso in modo perenne e anomalo. E qui entro in ballo ancora io. Pur avendo la deviazione del setto nasale che mi fa respirare male -per cui ogni anno consumo nel periodo invernale almeno una boccetta di decongestionante- quest’anno, da novembre ad oggi, ne ho consumati…cinque. Tra l’altro ho notato che il naso chiuso contribuisce alla sensazione della mancanza d’aria e della difficoltà a respirare.
  • Mal di testa continui e sinusiti
  • Sindromi influenzali che permango anche dieci, dodici giorni dopo che è passato lo stato febbrile. Magari con una ricaduta nel periodo immediatamente successivo.

Ci sono altri sintomi, che qui non elenco, perché trovati in giro in maniera minore.

Naturalmente non sto presupponendo che ciò sia dovuto al COVID o ai vaccini. Lo scrivo giusto per evitare eventuali diatribe tra chi si è vaccinato e chi no.

Fin qui quello che ho visto e trovato in giro. Prima di chiedere lumi magari a un dottore o a un esperto vorrei a questo punto il vostro parere e vedere se la cosa, in alcuni casi, è più generalizzata a differenza di altri.

Potete quindi commentare su questo articolo, telefonare al 338-2415614, oppure mandarci un’email a sannioreport@gmail.com .

Tutte le informazioni raccolte verranno catalogate per farne un elenco, dopodiché chiederò parere su queste anomalie fisiche che molte persone stanno avendo negli ultimi tempi.

Vi ringrazio fin d’ora per la collaborazione.

Felice Presta

 

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La Redazione 18 Gennaio 2024 0
BeneventoBlogCronache

Ospedale: la nostra solidarietà all’anziana signora che ha avuto il coraggio di sfogarsi

Ieri con un post ironico sui social e, avendo letto attentamente lo sfogo di una signora anziana al pronto soccorso cittadino, ho scritto:” Se dovessi stare male non mi portate al pronto soccorso, uccidetemi subito”:

Una provocazione? Sicuramente, ma anche la constatazione di un’amara realtà dove, ascoltando le persone, episodi di una gravità assoluta si moltiplicano a dismisura.

Tutto ciò è dovuto al covid? Sicuramente, ma ciò non toglie che si sta perdendo l’umanità che dovrebbe esserci in un posto che si dovrebbe definire ospedale.

E veniamo a un caso per far capire.

Sto male mi accompagnano al pronto soccorso.

Entro con un codice, verde rosso giallo blue indaco violetto, non è importante.

E mi mettono su una barella e poi in una stanza nel migliore dei casi. Nel peggiore rimango sulla barella e rimango nei corridoi in attesa di un posto.

Da solo.

Nessuno sa quando passeranno a visitarmi e se lo faranno. Vedi infermieri che vanno avanti e dietro, dottori esauriti dal superlavoro.

E intanto tu rimani li e i tuoi cari fuori.

Passa il tempo tu non sai niente. Quindi comunichi con il cellulare, in questo caso una benedizione, all’esterno che non sai nulla…tutti aspettano. Tu degente, i tuoi parenti fuori, gli infermieri che non sanno che dirti.

Hai fame? Hai sete? Devi aspettare qualche anima pia, oppure avere la forza di alzarti (ma se sto male e non riesco a muovermi? ) e andare a un distributore automatico.

Passa un medico, guarda la cartella, scrive degli esami e ripone la cartella.

“Dottore quando li devo fare questi esami?”. “Appena possibile!”

E intanto tu aspetti li. Posso mangiare? Posso bere? Visto che qualcuno è riuscito a portarmi qualcosa da mangiare e da bere? Boh, non ti dicono nulla. Devo fare una tac? Una risonanza? Guardo sulla cartella e i geroglifici non mi dicono nulla.

Ci sarà uno scienziato addetto che li tradurrà dall’aramaico antico.

“Infermiere mi sento male”, “Non si preoccupi è momentaneo adesso vedo di portarvi qualcosa per il dolore”.

Si giusto un po’ di acqua benedetta, forse.

Dopo 12 ore perdo la pazienza e inizio ad averne abbastanza e chiamo tutti quelli che mi passano davanti…tutti rispondono che tornano subito e non li rivedo più. Vedo facce nuove, avranno finito il turno quelli di prima, fermo qualcuno e spiego cosa mi è successo. Stessa cosa, torniamo subito.

Mi sento sempre peggio e oltre a fare le telefonate ai parenti all’esterno che non sanno cosa fare oltre che a cercare raccomandazioni per entrare almeno uno e venire ad accudirmi o almeno a starmi accanto.

Ma c’è il COVID non si può. Mascherine a gogo, gente sulle barelle che come me chiama, o perde la pazienza.

Gente anziana abbandonata senza assistenza, ma chi dovrebbe assisterla se non i suoi parenti? Che però non lasciano entrare.

Vabbè alla fine o muoio oppure riescono a salvarmi per miracolo (nel senso che un medico si ferma, si accerta quello che ho, mi da la cura o da le indicazioni agli infermieri e vengo salvato). Dopo 36 ore sia ben chiaro.

In pratica è una lotteria, macabra ma sempre lotteria.

Se ti capita qualcuno buono ti salvi, sennò hai voglia di morire, solo.

Sono solidale con l’anziana signora che si è sfogata in maniera civile contro questo andazzo in un pronto soccorso, in questo caso di Benevento, ma poteva essere di qualsiasi altra città.

E il racconto anche ironico fatto era solo per sottolineare un fatto di per se evidente: la sanità pubblica è al collasso, chi può scappa dagli ospedali (e parlo di dottori) per andare in posti più tranquilli ed efficienti. Gli infermieri fanno quello che possono, diventando nervosi loro e facendo innervosire anche i pazienti che qualche volta sclerano (comportamento da censurare naturalmente).

E l’ultima realtà è che si muore più facilmente di prima dentro gli ospedali e non per covid.

La politica dovrebbe riflettere su questo ultimo dato!

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La Redazione 15 Dicembre 2023 0
BeneventoBlogCulturaDocumenti

Salutiamo i reperti di piazza Cardinal di Pacca (piazza Santamaria)

Come ho più volte scritto parlare di Cultura in questa città (dove per cultura si intende anche e soprattutto la valorizzazione del nostro patrimonio storico-archeologico) sta diventando ogni giorno sempre più difficile. Per l’ignavia di cittadini e amministrazioni, certamente, ma anche per il fatto che quei pochi “CHE FANNO” non riescono a mettersi d’accordo unitariamente per presentare progetti e quant’altro in modo da costringere chi di dovere ad ascoltare. Poi c’è l’onda lunga del “momento” come quella di piazza Cardinal di Pacca, cioè una micro sollevazione-indignazione popolare che porta la politica e la sovrintendenza a cambiare i Progetti (sbagliati) iniziali. Molto lo si deve all’opposizione al Comune di Benevento con i consiglieri come Moretti e Perifano che, carte alla mano, hanno costretto al cambio.

Martedì 27 giugno ci sarà una manifestazione a questo proposito, e precedentemente anche una raccolta di firme, che secondo il sottoscritto lasciano il tempo che trovano. Anche perché la decisione già è presa: si ricopre tutto. Perché? Perché l’amministrazione non ha interesse a recuperare l’area, la sovrintendenza si nasconde dietro “non teniamo soldi” e quindi rimane ciò che è stato deciso.

Si farà un infopoint light, il prossimo anno torneranno le giostre e tutto finirà nel dimenticatoio.

Come dite? Perché ne sono cosi sicuro? Perché sono esperienze già vissute in precedenza, con i Sabariani, con Torre Biffa, con Cellarulo, i resti del mercato romano del Malies e cosi via…

La storia degli ultimi trent’anni è costellata di episodi del genere e non si è mai trovata la via per un recupero o per una valorizzazione adeguata di ciò che abbiamo, di ciò che sappiamo di avere e di ciò che troveremo spostando 10cm di asfalto. Un discorso settoriale in questo senso, sulla spinta emozionale del momento, non serve a nulla tantomeno a ciò che c’è sotto piazza Cardinal di Pacca. L’ho detto e lo ripeto: è meglio che vengano risotterrati i reperti trovati perché altre soluzioni economiche non ce ne sono. Una sola ipotesi è possibile nel caso si voglia realmente attuare un progetto di valorizzazione dei reperti sulla piazza. Creare una struttura fissa che protegga dalle intemperie e non lastre di plastica che, dopo un paio di anni complice l’umidità della città, non faccia più vedere ciò che si cela li sotto.

Dal discorso sembro sfiduciato? Certamente, e state parlando con chi ha messo in piedi l’operazione Santi Quaranta, ripulito e fatto diventare di proprietà comunale il campanile di Santa Sofia e ripulito i resti dell’anfiteatro gratuitamente (adesso daranno a una ditta 25 mila euro circa per fare la stessa cosa). Ci vuole programmazione economica, una visione di città che da 40 anni non c’è mai stata, ci vuole impegno, fatica e sudore. Ma è meglio tagliare nastri e accedere al successivo buffet piuttosto che fare una cosa del genere. Ci si stanca di meno.

Felice Presta

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La Redazione 22 Giugno 2023 0
BlogCultura

Gli errori dell’Europa

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum del 2016 che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache.

 

Felice Presta

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La Redazione 15 Maggio 2023 0
BlogCultura

Da Lisbona a Calicut: il viaggio di Vasco Da Gama

 

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

8 luglio 1497. Le partenze dalla foce del Tago non sono una novità per gli abitanti di Lisbona. Quelle navi che salpano per terre lontane e sconosciute, sono uno spettacolo da non perdere: rulli di tamburi, tuoni di cannone, squilli di tromba e bandiere al vento. Quel giorno si preparano a solcare l’oceano anche le quattro unità al comando di Vasco da Gama. Sono la Sao Gabriel, un veliero da circa 150 tonnellate con le insegne dell’ammiraglio e sotto il suo comando; la Sao Rafael, più o meno della medesima stazza, affidata al fratello Paulo da Gama; assieme con loro salpano la più piccola caravella Berrio e una quarta unità ausiliaria, la nave delle salmiere, poco considerata a tal punto da essersi perso il nome. Non sono semplici vascelli, sono stati costruiti appositamente seguendo i suggerimenti di Bartolomeu Dias che conosce bene quali caratteristiche debbano avere le unità destinate ad andare oltre il Capo di Buona Speranza. Si imbarca anche lui per dare consigli e indicazioni, insieme a 170 uomini che formano l’equipaggio.

La navigazione procede tranquilla fino alle Canarie, dove una nebbia intensa fa disperdere la flottiglia che si ricongiunge all’altezza di Capo Verde. Dias torna indietro. Mentre da Gama vuole mostrare di potercela fare rischiando molto: niente navigazione sotto costa, come si usava in quel periodo, ma in pieno oceano, seimila miglia di mare e almeno tre mesi di navigazione senza vedere terra. Anzi, per sfruttare i venti favorevoli, il portoghese sceglie la rotta verso sud-ovest che lo allontana ulteriormente dall’Africa. Sarà il più lungo viaggio in mare aperto compiuto fino a quel momento.

4 novembre 1497. Dopo una virata, la spedizione lusitana sbarca in un punto della costa sudoccidentale del continente dove i marinai mangiano foche, balene, gazzelle e radici. L’incontro con la popolazione locale dapprima sembra pacifico, ma poi aumenta la tensione e cominciano gli scontri con l’equipaggio e lo stesso Vasco da Gama che resta leggermente ferito da una freccia. Il convoglio riprende il mare. Ormai l’Oceano Indiano è vicino e, superato capo Agulhas, la punta più meridionale dell’Africa, le navi abbandonano l’Atlantico.

16 dicembre 1497. Percorse un centinaio di miglia, le navi si avvicinano alla baia di Mossel, il punto estremo raggiunto dalla precedente spedizione di Dias. Da lì si aprono 800 miglia di mare inesplorato prima di raggiungere i porti musulmani dell’Africa, dove sarà possibile trovare piloti. L’ammiraglio ordina di prendere terra, la nave più piccola, viene bruciata e le provviste rimanenti sono trasferite a bordo delle tre unità. Il 25 dicembre Vasco da Gama decide di chiamare Natal quella regione australe; nome conservato ancora oggi dalla provincia sudafricana di KwaZulu-Natal. Le navi ripartono dopo tredici giorni di sosta, con i marinai che affrontano un altro incontro ostile con gli indigeni che alla loro partenza demoliscono la colonna che i portoghesi avevano innalzato in memoria dello sbarco. Meno tesa è la situazione sul fiume Limpopo, nell’attuale Mozambico, dove le popolazioni seppur armate, si comportano si dimostrano amichevoli.

22 febbraio 1498. I portoghesi hanno un primo contatto con un musulmano alla foce di un fiume e dopo qualche giorno approdano vicino all’odierna città di Nacala. Qui c’è un importante porto e cantiere arabo, dove finalmente trovano i carichi di spezie, pietre preziose e altre materie. I marinai arabi spiegano ai Portoghesi che il regno del Prete Gianni si trova all’interno, a soli quattro giorni di viaggio. Il sultano all’inizio pensa che i nuovi venuti siano dei fratelli musulmani e li tratta amichevolmente, poi quando si rende conto che non è così, comincia a trattarli con disprezzo e disdegna i doni ricevuti. Vorrebbe delle pezze di panno rosso che i lusitani dicono di non avere perché hanno deciso di regalare al re di Calicut. La fama del tessuto noto come “scarlatto di Venezia” è giunta fino alle propaggini estreme del mondo musulmano. A questo punto l’atmosfera si fa tesa e Vasco da Gama decide di riprendere la via del mare, ma i venti contrari costringono le navi a tornare da dove sono venute. La situazione precipita. Scesi a terra per fare scorte d’acqua, i portoghesi vengono aggrediti. In tutta fretta, imbarcano due piloti arabi, pratici di carte e bussole e si dirigono verso Mombasa. Lì stesso copione: accolti perché creduti musulmani, l’atteggiamento delle popolazioni locali cambia quando si rendono conto di avere a che fare con cristiani. Tentano addirittura di catturare le navi con un attacco notturno. Di nuovo in mare, direzione Malindi, dove basta un giorno di navigazione. La situazione cambia completamente, l’ambiente è rilassato, nella città keniota è possibile imbarcare frutta fresca, grano e ortaggi e, dopo aver ingaggiato un altro pilota, originario di Alessandria d’Egitto, si riparte.

24 aprile 1498. Le navi tolgono le ancore dall’Africa dirigendo le prue verso l’India. Dopo 23 giorni di navigazione le vedette nelle coffe scorgono le montagne: sono arrivati a destinazione. Il 20 maggio i Portoghesi ormeggiano a Calicut, ovvero l’odierna Kozhikode, sulla costa del Malabar, nella regione indiana del Kerala. È il principale porto delle spezie dove caricano i Veneziani. L’ammiraglio ricorda un aneddoto: due mercanti tunisini si rivolgono a quel gruppo di europei in genovese. Nel porto circolano monete d’oro arabe, ducati veneziani e genovini; si può bere il vino dolce di Creta e altre specialità provenienti da tutto il mondo.

Calicut viene descritta con meraviglia: decine di elefanti addomesticati vengono cavalcati e utilizzati persino per varare le navi. Il Re è fuori città, ma rientra non appena apprende dello sbarco degli Europei e manda a chiamare Vasco da Gama in attesa sulla nave. Questi sbarca con dodici uomini e un migliaio di persone li scortano fino al palazzo reale, dove vengono accolti dal sovrano in un ambiente di lusso e splendore. Ma quel che più conta agli occhi dei portoghesi è la zona portuale: sono agli ormeggi oltre cinquecento imbarcazioni e ogni anno arrivano fino a 1500 navi arabe che trasportano le spezie al Golfo Persico, dove poi vengono sbarcate per raggiungere con i cammelli Alessandria d’Egitto. Nessuna mercanzia europea viene considerata interessante, salvo il lino: i marinai riescono a piazzare molto bene alcune camicie in cambio di spezie. Anche qui i rapporti con il re si guastano, un po’ per i doni giudicati scadenti, un po’ per via degli Arabi che non gradiscono l’arrivo dei portoghesi. Lo zamorin (sovrano) fa arrestare i marinai e si convince a lasciarli andare solo trattenendo qualche ostaggio.

29 agosto 1498. Le navi di Vasco di Gama lasciano Calicut. La traversata dell’Oceano Indiano che all’andata aveva richiesto una ventina di giorni, ora, a causa dei venti contrari, dura alcuni mesi. Lo scorbuto uccide una trentina di marinai e una volta raggiunta Malindi, il comandante fa bruciare una della navi per completare gli equipaggi delle due navi superstiti. Siamo a febbraio quando le navi riprendono il mare, il 20 marzo doppiano Capo di Buona Speranza, a luglio raggiungono le Azzorre, dove muove Paulo da Gama. Il 9 settembre 1499, dopo oltre 24 mila miglia di mare, Vasco da Gama, rientra da trionfatore a Lisbona.

Il ritorno e il nuovo viaggio.

Tornato in patria, riceve dal re Manuele I la nomina di Ammiraglio dell’Oceano Indiano, con relativa gratifica e concessione del feudo di Sines, ma ha poco tempo per riposarsi. Il 10 febbraio 1502 ricomincia con una spedizione di una ventina di navi, una flotta importante per posizionare degli avamposti portoghesi sulle terre esplorate e rafforzare la potenza marittima del Portogallo. Si fermano a Sofala, in Mozambico, obbligando il sovrano locale a versare un contributo, poi giungono a Kilwa, in Tanzania attivando una rotta commerciale. Nel frattempo a Vasco da Gama giunge la notizie dell’attacco subito dalla spedizione guidata da Pedro Alvares Cabral a Calicut. A quel punto riprende il mare e al largo della costa del Malabar attacca le imbarcazioni dei mercanti arabi, quindi sfrutta le rivalità locali e si accorda con il re di Kannur, una città a 100 chilometri da Calicut. Qui appena giunto, non ottenendo dal sovrano quanto richiesto, ordina di bombardare la città. Durante il viaggio di ritorno stipula un trattato a Cochin l’attuale Kochi e riempie le stive di spezie. Tornerà ancora una volta in India, nel 1524 per morire a Cochin a causa della malaria.

 

FELICE PRESTA

 

 

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La Redazione 4 Maggio 2023 0
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Una nuova realtà imprenditoriale: la OFFTEC

“Nessuno è profeta in patria”, figuriamoci se poi si tratta della nostra terra, il Sannio. Ma qualche eccezione, la storia ci insegna, c’è stata.

E qui entra in gioco una delle realtà, ormai consolidate, che nello spazio di pochi anni si è affermata prima in ambito nazionale e poi in quello internazionale. Parliamo, ovviamente, della OFFTEC e del suo presidente, l’architetto Flavian Basile, che nello spazio di 7 anni (è stata creata nel 2016) è diventata un laboratorio di progettazione impegnato sia nel campo dell’architettura che dell’ingegneria.

Benevento, Catania e Milano sono le sue tre sedi.

Per far vedere come si sta evolvendo la struttura OFFTEC è stata organizzata una mostra fotografica presso il museo Arcos di Benevento, intitolata “Quando spazio e luce iniziano a prendere forma” dove sono esposti parte dei progetti messi in piedi in questi anni dalla società. Un riconoscimento certamente all’azienda, ma anche al nostro territorio, il Sannio, che si crede, generalmente,  privo di qualsivoglia forma di sviluppo economico a certi livelli.

La mostra, come ha spiegato l’architetto Basile, è solo un punto di partenza e non di arrivo ed è servito, a margine della stessa, a spiegare due dei progetti che saranno portati avanti in questa città: la ristrutturazione del Grand Hotel Italiano al rione Ferrovia e la costruzione del campo da golf (e cosi adesso sappiamo anche chi ha avuto l’idea di rivitalizzare terreni abbandonati abbinandola ad un’idea imprenditoriale e turistica che potrebbe realmente portare benefici qui in città). Come giornale abbiamo sempre appoggiato iniziative imprenditoriali come queste -in special modo quando imprenditori vogliono investire, senza speculare sulla città (citare casi passati sarebbe qui inopportuno, ma sapete bene quali e quante battaglie su costruzioni abbandonate questo giornale sta portando avanti)-. E allora non ci resta che aspettare e vedere cosa succederà nel prossimo futuro, augurando alla Offtec e al suo presidente, Flavian Basile, di continuare sulla strada intrapresa finora.

 

Felice Presta

La mostra si protrarrà fino al 20 marzo.

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La Redazione 13 Marzo 2023 0
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