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BeneventoBlogSannio

Il Centro storico di Pietrelcina e la possibilità del rinnovamento

La questione della “conservazione” è un problema cruciale e ineludibile, allo stesso tempo è un tema difficile da pensare e argomentare, per l’immediata diffidenza che suscita. Eppure dovrebbe essere intuitivo che la conservazione è un aspetto non marginale in qualsiasi riflessione che riguarda il paesaggio, specialmente quello urbano, perché dalla capacità di comprendere ciò che va conservato si può immaginare un futuro di rinnovamento e trasformazione senza provocare distruzioni.

Ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non riducibile a semplice superficie disponibile a qualsiasi manomissione. “Conservare” nel suo significato originario, deriva da “cum-serbare”, preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione. Si protegge ciò che si ha a cuore, solo ciò che conta per una comunità, l’esatto contrario di una concezione museale.

L’elaborazione di un pensiero del paesaggio e del territorio come identità singolare dei luoghi non può evitare di interrogarsi sul valore della conservazione. Di fronte a territori e aree urbane scempiate dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, i centri storici dei piccoli paesi, sembrano resistere al degrado estetico che inevitabilmente apre la strada al decadimento civile. È un dibattito vecchio e già in epoche passate, in un’Italia tutta proiettata verso l’espansione economica, sono stati in molti a lanciare l’allarme contro l’alterazione del paesaggio che non può essere ridotto né a cartolina patinata intoccabile, né a uno spazio da spianare e alterare a piacimento per soddisfare l’economia e il mercato. Un equilibrio esiste e va trovato. A titolo di esempio, quando i Talebani hanno fatto saltare le colossali statue del Buddha di Bamiyan, tutti comprendemmo che dietro a quel gesto iconoclasta, c’era una volontà di annichilimento e umiliazione di una tradizione millenaria.

I piccoli borghi si trovano sempre stretti tra due tendenze: l’eccessiva trasformazione e l’altrettanto eccessiva conservazione. Tornando alle nostre terre, ai luoghi che abitiamo e influenzano la vita, il centro storico di Pietrelcina, il famoso Castello, si trova purtroppo in una condizione di sospensione e spopolamento. “Ncoppa Castiello”, espressione dialettale che descrive lo spirito di chi ancora ci abita, sembra relegata a un lontano passato, quando il rione abbarbicato sulla roccia, era abitato da un’umanità eterogenea. Salendo a piedi dopo avere superato Porta Madonnella, si cammina tra vicoli e le piccole corti in uno spazio che sembra fisso nel tempo.

La dura legge dell’economia, il mutamento degli stili di vita, un modello globalista scellerato che non premia la prossimità e considera gli antichi territori come un luogo folkloristico da animare solo in determinati periodi dell’anno, non aiutano a immaginare un futuro per il Rione Castello. Persino i turisti sono spesso smarriti con le loro domande: “ancora ci abita qualcuno?” oppure “voi vivete qui?” – è la classica reazione quando una porta si apre o quando ci vedono con una busta della spesa mentre rientriamo in casa.

I luoghi sono sempre dotati di una propria “individualità”, quella che il geografo Vidal de La Blanche chiamava la “personalità”, anche quando sembriamo non accorgercene perché troppo distratti dalla routine quotidiana. Sono certi caratteri identitari a dare forma e valore a un determinato quartiere.

Per quanto riguarda il centro storico di Pietrelcina sono opportune alcune azioni per migliorare la situazione. Prima di tutto, andrebbe creato un sistema per facilitare, nei limiti del possibile, l’accesso ai disabili. Nelle giornate di maggiore affollamento turistico, si dovrebbe predisporre l’ingresso dei viaggiatori in piccoli gruppi a numero chiuso per evitare lo sgradevole effetto “collo di bottiglia” quando gli abitanti del centro storico sono costretti a farsi largo tra la folla di turisti per raggiungere le proprie abitazioni. Questo consentirebbe ai viaggiatori di evitare lunghe code e di potere visitare il borgo e le stanze dove visse Padre Pio da giovane con più tranquillità. Noi abitanti, custodi del centro storico, abbiamo il dovere di preservare i luoghi e di averne cura, i turisti hanno il diritto una visita serena.

Più ambiziosa è l’idea di una trasformazione del centro storico con l’esperimento di installazione di strumenti e tecnologie “off grid” per produrre e soddisfare in autonomia i carichi energetici. In questo modo il Rione Castello potrebbe diventare un borgo autonomo e digitalizzato con la possibilità di trasformare case e stanze disabitate in spazi di lavoro e comunità.

Il centro storico di Pietrelcina potrebbe rinascere: servono pazienza per la ricerca dei fondi pubblici e idee creative per sottrarlo al declino.

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La Redazione 4 Febbraio 2025 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne? Va benissimo, ma perché aumentano?

Riprendere a scrivere dopo tanto tempo non è facile ma l’argomento non solo è di attualità ma è, per me, importantissimo: quello sulla violenza sulle donne.

Lo scorso 25 novembre c’è stata la giornata dedicata…belle le foto sui social, gli speciali sui tg e sui giornali. Tutto bello ma a che cosa serve?

Mi spiego.

La sensibilizzazione va benissimo ma deve essere seguita da fatti concreti.

I dati sulle denunce non diminuiscono, ma anzi aumentano.

Cosi come gli omicidi, le minacce, le violenze e cosi via.

Perché?

Dopo aver attentamente e giornalisticamente studiato il fenomeno (eh già mi hanno insegnato a studiare prima di affermare determinate cose), anche dalla parte normativa -cioè partendo dalle denunce fino ad arrivare ai tribunali- posso tranquillamente affermare senza tema di smentita che, codice rosso o meno, dalla denuncia della potenziale vittima alla lettura del fascicolo da parte del magistrato -e qui parlo solo di lettura, non di atti coercitivi- passano dai quattro ai sei mesi.

Solo in caso di flagranza di reato, difficili in molti dei casi come quelli citati prima, si può e si fa qualcosa in più.

Sennò si va avanti con una, due, cinque, dieci denunce nel frattempo che il magistrato incaricato valuti l’ormai enorme fascicolo e decida poi qualcosa al riguardo.

Non va bene, non va per nulla bene.

Se ci fate caso il più delle volte, nei femminicidi, le vittime avevano fatto più denunce. Avevano allertato più volte le forze di Polizia…ma il tempo trascorso aveva poi permesso all’assassino di mettere in pratica i propositi maturati nel tempo.

Le forze dell’ordine non hanno colpe visto il vincolo che li lega alle decisioni di un giudice.

E neanche i consigli che danno (allontanatevi, non rispondete, non reagite e cosi via) possono essere d’aiuto in molti dei casi.

Torniamo ai magistrati? Anche loro non hanno colpa visto le tante pratiche che si accumulano sulle loro scrivanie e non possono essere smaltite in breve tempo.

Si è fatto tanto per la sensibilizzazione, come ho detto, si è attivato un numero verde il 1522, alcune procure hanno attivato sportelli appositi, la normativa al riguardo è stata aggiornata anche con l’aggiunta nel codice penale del femminicidio. Rimane il blackout dalle denunce al fare qualcosa al riguardo (ad esempio obbligo di non avvicinarsi alla persona).

Passa troppo tempo e questo tempo, molte volte, è fatale per le donne che devono subire.

 

Felice Presta

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La Redazione 30 Novembre 2024 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Inchiesta conoscitiva su attacchi di panico e altro negli ultimi tempi

Compito di un giornalista d’inchiesta è tenere sempre gli occhi e le orecchie bene aperte ed osservare ciò che succede intorno a lui e, quando si verifichino anomalie, cercare di dare delle risposte a queste.

Non sono un medico quindi cercherò di spiegare delle cose dal punto di vista del…paziente.

Negli ultimi tempi, diciamo nell’arco di un anno, con accelerazioni negli ultimi 6 mesi, c’è stato un incremento dei cosi detti STATI D’ANSIA E DI PANICO.

In che cosa consistono? Il corpo, sia pure respirando profondamente, sembra che non riceva abbastanza aria nei polmoni e quindi, il più delle volte, si è costretti a iperventilare per tornare alla normalità.

Non sempre ci si riesce e, appunto, si va nel panico.

In alcuni casi questi attacchi portano anche ad aritmie cardiache di media importanza.

Se siano connessi i due stati non lo so, per questo scrivo l’articolo, per fare in modo, con i vostri commenti, di avere un’idea più chiara di ciò che sta succedendo.

Potrei pensare che la presupposta mancanza di ossigeno, o la sensazione se cosi la vogliamo chiamare, porti poi ad un’accelerazione dei battiti del cuore e quindi all’aritmia. Questo lo dovrebbero poi spiegare i medici.

Questi sintomi, che ho avuto modo di constatare in prima persona, e poi con altre due persone vicine, vengono su uomini che hanno superato, o sono prossimi, alla cinquantina. Di donne non ne ho avuto notizie.

Questa anomalia è solo l’unica di tante altre verificatesi in un arco di tempo più ampio, diciamo due o tre anni e che vado ad elencare in ordine di casi.

  • Mal di schiena. Ma non quello normale bensì un dolore costante e persistente che può durare dai due ai sei mesi nella parte centrale alla fine della colonna vertebrale in prossimità del coccige. Una volta che il dolore è passato rimane, toccandosi, comunque quello sottocutaneo, come se si fosse preso una botta, e limita nei movimenti il corpo di chi lo ha subito.
  • Spossatezza, chiamiamola voglia di non fare nulla. Non si desidera uscire, stare con la gente, passeggiare eccetera. Io l’ho definita sindrome lockdown. Ma non è comunque uno stato mentale bensì fisico. E come se il fisico dicesse al corpo STAI A CASA. E quando non ci sei magari provoca un senso di insofferenza e indifferenza per il mondo fuori di essa.
  • Naso chiuso in modo perenne e anomalo. E qui entro in ballo ancora io. Pur avendo la deviazione del setto nasale che mi fa respirare male -per cui ogni anno consumo nel periodo invernale almeno una boccetta di decongestionante- quest’anno, da novembre ad oggi, ne ho consumati…cinque. Tra l’altro ho notato che il naso chiuso contribuisce alla sensazione della mancanza d’aria e della difficoltà a respirare.
  • Mal di testa continui e sinusiti
  • Sindromi influenzali che permango anche dieci, dodici giorni dopo che è passato lo stato febbrile. Magari con una ricaduta nel periodo immediatamente successivo.

Ci sono altri sintomi, che qui non elenco, perché trovati in giro in maniera minore.

Naturalmente non sto presupponendo che ciò sia dovuto al COVID o ai vaccini. Lo scrivo giusto per evitare eventuali diatribe tra chi si è vaccinato e chi no.

Fin qui quello che ho visto e trovato in giro. Prima di chiedere lumi magari a un dottore o a un esperto vorrei a questo punto il vostro parere e vedere se la cosa, in alcuni casi, è più generalizzata a differenza di altri.

Potete quindi commentare su questo articolo, telefonare al 338-2415614, oppure mandarci un’email a sannioreport@gmail.com .

Tutte le informazioni raccolte verranno catalogate per farne un elenco, dopodiché chiederò parere su queste anomalie fisiche che molte persone stanno avendo negli ultimi tempi.

Vi ringrazio fin d’ora per la collaborazione.

Felice Presta

 

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La Redazione 18 Gennaio 2024 0
BeneventoBlogCronache

Ospedale: la nostra solidarietà all’anziana signora che ha avuto il coraggio di sfogarsi

Ieri con un post ironico sui social e, avendo letto attentamente lo sfogo di una signora anziana al pronto soccorso cittadino, ho scritto:” Se dovessi stare male non mi portate al pronto soccorso, uccidetemi subito”:

Una provocazione? Sicuramente, ma anche la constatazione di un’amara realtà dove, ascoltando le persone, episodi di una gravità assoluta si moltiplicano a dismisura.

Tutto ciò è dovuto al covid? Sicuramente, ma ciò non toglie che si sta perdendo l’umanità che dovrebbe esserci in un posto che si dovrebbe definire ospedale.

E veniamo a un caso per far capire.

Sto male mi accompagnano al pronto soccorso.

Entro con un codice, verde rosso giallo blue indaco violetto, non è importante.

E mi mettono su una barella e poi in una stanza nel migliore dei casi. Nel peggiore rimango sulla barella e rimango nei corridoi in attesa di un posto.

Da solo.

Nessuno sa quando passeranno a visitarmi e se lo faranno. Vedi infermieri che vanno avanti e dietro, dottori esauriti dal superlavoro.

E intanto tu rimani li e i tuoi cari fuori.

Passa il tempo tu non sai niente. Quindi comunichi con il cellulare, in questo caso una benedizione, all’esterno che non sai nulla…tutti aspettano. Tu degente, i tuoi parenti fuori, gli infermieri che non sanno che dirti.

Hai fame? Hai sete? Devi aspettare qualche anima pia, oppure avere la forza di alzarti (ma se sto male e non riesco a muovermi? ) e andare a un distributore automatico.

Passa un medico, guarda la cartella, scrive degli esami e ripone la cartella.

“Dottore quando li devo fare questi esami?”. “Appena possibile!”

E intanto tu aspetti li. Posso mangiare? Posso bere? Visto che qualcuno è riuscito a portarmi qualcosa da mangiare e da bere? Boh, non ti dicono nulla. Devo fare una tac? Una risonanza? Guardo sulla cartella e i geroglifici non mi dicono nulla.

Ci sarà uno scienziato addetto che li tradurrà dall’aramaico antico.

“Infermiere mi sento male”, “Non si preoccupi è momentaneo adesso vedo di portarvi qualcosa per il dolore”.

Si giusto un po’ di acqua benedetta, forse.

Dopo 12 ore perdo la pazienza e inizio ad averne abbastanza e chiamo tutti quelli che mi passano davanti…tutti rispondono che tornano subito e non li rivedo più. Vedo facce nuove, avranno finito il turno quelli di prima, fermo qualcuno e spiego cosa mi è successo. Stessa cosa, torniamo subito.

Mi sento sempre peggio e oltre a fare le telefonate ai parenti all’esterno che non sanno cosa fare oltre che a cercare raccomandazioni per entrare almeno uno e venire ad accudirmi o almeno a starmi accanto.

Ma c’è il COVID non si può. Mascherine a gogo, gente sulle barelle che come me chiama, o perde la pazienza.

Gente anziana abbandonata senza assistenza, ma chi dovrebbe assisterla se non i suoi parenti? Che però non lasciano entrare.

Vabbè alla fine o muoio oppure riescono a salvarmi per miracolo (nel senso che un medico si ferma, si accerta quello che ho, mi da la cura o da le indicazioni agli infermieri e vengo salvato). Dopo 36 ore sia ben chiaro.

In pratica è una lotteria, macabra ma sempre lotteria.

Se ti capita qualcuno buono ti salvi, sennò hai voglia di morire, solo.

Sono solidale con l’anziana signora che si è sfogata in maniera civile contro questo andazzo in un pronto soccorso, in questo caso di Benevento, ma poteva essere di qualsiasi altra città.

E il racconto anche ironico fatto era solo per sottolineare un fatto di per se evidente: la sanità pubblica è al collasso, chi può scappa dagli ospedali (e parlo di dottori) per andare in posti più tranquilli ed efficienti. Gli infermieri fanno quello che possono, diventando nervosi loro e facendo innervosire anche i pazienti che qualche volta sclerano (comportamento da censurare naturalmente).

E l’ultima realtà è che si muore più facilmente di prima dentro gli ospedali e non per covid.

La politica dovrebbe riflettere su questo ultimo dato!

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La Redazione 15 Dicembre 2023 0
BeneventoBlogCulturaDocumenti

Salutiamo i reperti di piazza Cardinal di Pacca (piazza Santamaria)

Come ho più volte scritto parlare di Cultura in questa città (dove per cultura si intende anche e soprattutto la valorizzazione del nostro patrimonio storico-archeologico) sta diventando ogni giorno sempre più difficile. Per l’ignavia di cittadini e amministrazioni, certamente, ma anche per il fatto che quei pochi “CHE FANNO” non riescono a mettersi d’accordo unitariamente per presentare progetti e quant’altro in modo da costringere chi di dovere ad ascoltare. Poi c’è l’onda lunga del “momento” come quella di piazza Cardinal di Pacca, cioè una micro sollevazione-indignazione popolare che porta la politica e la sovrintendenza a cambiare i Progetti (sbagliati) iniziali. Molto lo si deve all’opposizione al Comune di Benevento con i consiglieri come Moretti e Perifano che, carte alla mano, hanno costretto al cambio.

Martedì 27 giugno ci sarà una manifestazione a questo proposito, e precedentemente anche una raccolta di firme, che secondo il sottoscritto lasciano il tempo che trovano. Anche perché la decisione già è presa: si ricopre tutto. Perché? Perché l’amministrazione non ha interesse a recuperare l’area, la sovrintendenza si nasconde dietro “non teniamo soldi” e quindi rimane ciò che è stato deciso.

Si farà un infopoint light, il prossimo anno torneranno le giostre e tutto finirà nel dimenticatoio.

Come dite? Perché ne sono cosi sicuro? Perché sono esperienze già vissute in precedenza, con i Sabariani, con Torre Biffa, con Cellarulo, i resti del mercato romano del Malies e cosi via…

La storia degli ultimi trent’anni è costellata di episodi del genere e non si è mai trovata la via per un recupero o per una valorizzazione adeguata di ciò che abbiamo, di ciò che sappiamo di avere e di ciò che troveremo spostando 10cm di asfalto. Un discorso settoriale in questo senso, sulla spinta emozionale del momento, non serve a nulla tantomeno a ciò che c’è sotto piazza Cardinal di Pacca. L’ho detto e lo ripeto: è meglio che vengano risotterrati i reperti trovati perché altre soluzioni economiche non ce ne sono. Una sola ipotesi è possibile nel caso si voglia realmente attuare un progetto di valorizzazione dei reperti sulla piazza. Creare una struttura fissa che protegga dalle intemperie e non lastre di plastica che, dopo un paio di anni complice l’umidità della città, non faccia più vedere ciò che si cela li sotto.

Dal discorso sembro sfiduciato? Certamente, e state parlando con chi ha messo in piedi l’operazione Santi Quaranta, ripulito e fatto diventare di proprietà comunale il campanile di Santa Sofia e ripulito i resti dell’anfiteatro gratuitamente (adesso daranno a una ditta 25 mila euro circa per fare la stessa cosa). Ci vuole programmazione economica, una visione di città che da 40 anni non c’è mai stata, ci vuole impegno, fatica e sudore. Ma è meglio tagliare nastri e accedere al successivo buffet piuttosto che fare una cosa del genere. Ci si stanca di meno.

Felice Presta

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La Redazione 22 Giugno 2023 0
BlogCultura

Gli errori dell’Europa

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum del 2016 che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache.

 

Felice Presta

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La Redazione 15 Maggio 2023 0
BlogCultura

Da Lisbona a Calicut: il viaggio di Vasco Da Gama

 

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

8 luglio 1497. Le partenze dalla foce del Tago non sono una novità per gli abitanti di Lisbona. Quelle navi che salpano per terre lontane e sconosciute, sono uno spettacolo da non perdere: rulli di tamburi, tuoni di cannone, squilli di tromba e bandiere al vento. Quel giorno si preparano a solcare l’oceano anche le quattro unità al comando di Vasco da Gama. Sono la Sao Gabriel, un veliero da circa 150 tonnellate con le insegne dell’ammiraglio e sotto il suo comando; la Sao Rafael, più o meno della medesima stazza, affidata al fratello Paulo da Gama; assieme con loro salpano la più piccola caravella Berrio e una quarta unità ausiliaria, la nave delle salmiere, poco considerata a tal punto da essersi perso il nome. Non sono semplici vascelli, sono stati costruiti appositamente seguendo i suggerimenti di Bartolomeu Dias che conosce bene quali caratteristiche debbano avere le unità destinate ad andare oltre il Capo di Buona Speranza. Si imbarca anche lui per dare consigli e indicazioni, insieme a 170 uomini che formano l’equipaggio.

La navigazione procede tranquilla fino alle Canarie, dove una nebbia intensa fa disperdere la flottiglia che si ricongiunge all’altezza di Capo Verde. Dias torna indietro. Mentre da Gama vuole mostrare di potercela fare rischiando molto: niente navigazione sotto costa, come si usava in quel periodo, ma in pieno oceano, seimila miglia di mare e almeno tre mesi di navigazione senza vedere terra. Anzi, per sfruttare i venti favorevoli, il portoghese sceglie la rotta verso sud-ovest che lo allontana ulteriormente dall’Africa. Sarà il più lungo viaggio in mare aperto compiuto fino a quel momento.

4 novembre 1497. Dopo una virata, la spedizione lusitana sbarca in un punto della costa sudoccidentale del continente dove i marinai mangiano foche, balene, gazzelle e radici. L’incontro con la popolazione locale dapprima sembra pacifico, ma poi aumenta la tensione e cominciano gli scontri con l’equipaggio e lo stesso Vasco da Gama che resta leggermente ferito da una freccia. Il convoglio riprende il mare. Ormai l’Oceano Indiano è vicino e, superato capo Agulhas, la punta più meridionale dell’Africa, le navi abbandonano l’Atlantico.

16 dicembre 1497. Percorse un centinaio di miglia, le navi si avvicinano alla baia di Mossel, il punto estremo raggiunto dalla precedente spedizione di Dias. Da lì si aprono 800 miglia di mare inesplorato prima di raggiungere i porti musulmani dell’Africa, dove sarà possibile trovare piloti. L’ammiraglio ordina di prendere terra, la nave più piccola, viene bruciata e le provviste rimanenti sono trasferite a bordo delle tre unità. Il 25 dicembre Vasco da Gama decide di chiamare Natal quella regione australe; nome conservato ancora oggi dalla provincia sudafricana di KwaZulu-Natal. Le navi ripartono dopo tredici giorni di sosta, con i marinai che affrontano un altro incontro ostile con gli indigeni che alla loro partenza demoliscono la colonna che i portoghesi avevano innalzato in memoria dello sbarco. Meno tesa è la situazione sul fiume Limpopo, nell’attuale Mozambico, dove le popolazioni seppur armate, si comportano si dimostrano amichevoli.

22 febbraio 1498. I portoghesi hanno un primo contatto con un musulmano alla foce di un fiume e dopo qualche giorno approdano vicino all’odierna città di Nacala. Qui c’è un importante porto e cantiere arabo, dove finalmente trovano i carichi di spezie, pietre preziose e altre materie. I marinai arabi spiegano ai Portoghesi che il regno del Prete Gianni si trova all’interno, a soli quattro giorni di viaggio. Il sultano all’inizio pensa che i nuovi venuti siano dei fratelli musulmani e li tratta amichevolmente, poi quando si rende conto che non è così, comincia a trattarli con disprezzo e disdegna i doni ricevuti. Vorrebbe delle pezze di panno rosso che i lusitani dicono di non avere perché hanno deciso di regalare al re di Calicut. La fama del tessuto noto come “scarlatto di Venezia” è giunta fino alle propaggini estreme del mondo musulmano. A questo punto l’atmosfera si fa tesa e Vasco da Gama decide di riprendere la via del mare, ma i venti contrari costringono le navi a tornare da dove sono venute. La situazione precipita. Scesi a terra per fare scorte d’acqua, i portoghesi vengono aggrediti. In tutta fretta, imbarcano due piloti arabi, pratici di carte e bussole e si dirigono verso Mombasa. Lì stesso copione: accolti perché creduti musulmani, l’atteggiamento delle popolazioni locali cambia quando si rendono conto di avere a che fare con cristiani. Tentano addirittura di catturare le navi con un attacco notturno. Di nuovo in mare, direzione Malindi, dove basta un giorno di navigazione. La situazione cambia completamente, l’ambiente è rilassato, nella città keniota è possibile imbarcare frutta fresca, grano e ortaggi e, dopo aver ingaggiato un altro pilota, originario di Alessandria d’Egitto, si riparte.

24 aprile 1498. Le navi tolgono le ancore dall’Africa dirigendo le prue verso l’India. Dopo 23 giorni di navigazione le vedette nelle coffe scorgono le montagne: sono arrivati a destinazione. Il 20 maggio i Portoghesi ormeggiano a Calicut, ovvero l’odierna Kozhikode, sulla costa del Malabar, nella regione indiana del Kerala. È il principale porto delle spezie dove caricano i Veneziani. L’ammiraglio ricorda un aneddoto: due mercanti tunisini si rivolgono a quel gruppo di europei in genovese. Nel porto circolano monete d’oro arabe, ducati veneziani e genovini; si può bere il vino dolce di Creta e altre specialità provenienti da tutto il mondo.

Calicut viene descritta con meraviglia: decine di elefanti addomesticati vengono cavalcati e utilizzati persino per varare le navi. Il Re è fuori città, ma rientra non appena apprende dello sbarco degli Europei e manda a chiamare Vasco da Gama in attesa sulla nave. Questi sbarca con dodici uomini e un migliaio di persone li scortano fino al palazzo reale, dove vengono accolti dal sovrano in un ambiente di lusso e splendore. Ma quel che più conta agli occhi dei portoghesi è la zona portuale: sono agli ormeggi oltre cinquecento imbarcazioni e ogni anno arrivano fino a 1500 navi arabe che trasportano le spezie al Golfo Persico, dove poi vengono sbarcate per raggiungere con i cammelli Alessandria d’Egitto. Nessuna mercanzia europea viene considerata interessante, salvo il lino: i marinai riescono a piazzare molto bene alcune camicie in cambio di spezie. Anche qui i rapporti con il re si guastano, un po’ per i doni giudicati scadenti, un po’ per via degli Arabi che non gradiscono l’arrivo dei portoghesi. Lo zamorin (sovrano) fa arrestare i marinai e si convince a lasciarli andare solo trattenendo qualche ostaggio.

29 agosto 1498. Le navi di Vasco di Gama lasciano Calicut. La traversata dell’Oceano Indiano che all’andata aveva richiesto una ventina di giorni, ora, a causa dei venti contrari, dura alcuni mesi. Lo scorbuto uccide una trentina di marinai e una volta raggiunta Malindi, il comandante fa bruciare una della navi per completare gli equipaggi delle due navi superstiti. Siamo a febbraio quando le navi riprendono il mare, il 20 marzo doppiano Capo di Buona Speranza, a luglio raggiungono le Azzorre, dove muove Paulo da Gama. Il 9 settembre 1499, dopo oltre 24 mila miglia di mare, Vasco da Gama, rientra da trionfatore a Lisbona.

Il ritorno e il nuovo viaggio.

Tornato in patria, riceve dal re Manuele I la nomina di Ammiraglio dell’Oceano Indiano, con relativa gratifica e concessione del feudo di Sines, ma ha poco tempo per riposarsi. Il 10 febbraio 1502 ricomincia con una spedizione di una ventina di navi, una flotta importante per posizionare degli avamposti portoghesi sulle terre esplorate e rafforzare la potenza marittima del Portogallo. Si fermano a Sofala, in Mozambico, obbligando il sovrano locale a versare un contributo, poi giungono a Kilwa, in Tanzania attivando una rotta commerciale. Nel frattempo a Vasco da Gama giunge la notizie dell’attacco subito dalla spedizione guidata da Pedro Alvares Cabral a Calicut. A quel punto riprende il mare e al largo della costa del Malabar attacca le imbarcazioni dei mercanti arabi, quindi sfrutta le rivalità locali e si accorda con il re di Kannur, una città a 100 chilometri da Calicut. Qui appena giunto, non ottenendo dal sovrano quanto richiesto, ordina di bombardare la città. Durante il viaggio di ritorno stipula un trattato a Cochin l’attuale Kochi e riempie le stive di spezie. Tornerà ancora una volta in India, nel 1524 per morire a Cochin a causa della malaria.

 

FELICE PRESTA

 

 

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La Redazione 4 Maggio 2023 0
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Una nuova realtà imprenditoriale: la OFFTEC

“Nessuno è profeta in patria”, figuriamoci se poi si tratta della nostra terra, il Sannio. Ma qualche eccezione, la storia ci insegna, c’è stata.

E qui entra in gioco una delle realtà, ormai consolidate, che nello spazio di pochi anni si è affermata prima in ambito nazionale e poi in quello internazionale. Parliamo, ovviamente, della OFFTEC e del suo presidente, l’architetto Flavian Basile, che nello spazio di 7 anni (è stata creata nel 2016) è diventata un laboratorio di progettazione impegnato sia nel campo dell’architettura che dell’ingegneria.

Benevento, Catania e Milano sono le sue tre sedi.

Per far vedere come si sta evolvendo la struttura OFFTEC è stata organizzata una mostra fotografica presso il museo Arcos di Benevento, intitolata “Quando spazio e luce iniziano a prendere forma” dove sono esposti parte dei progetti messi in piedi in questi anni dalla società. Un riconoscimento certamente all’azienda, ma anche al nostro territorio, il Sannio, che si crede, generalmente,  privo di qualsivoglia forma di sviluppo economico a certi livelli.

La mostra, come ha spiegato l’architetto Basile, è solo un punto di partenza e non di arrivo ed è servito, a margine della stessa, a spiegare due dei progetti che saranno portati avanti in questa città: la ristrutturazione del Grand Hotel Italiano al rione Ferrovia e la costruzione del campo da golf (e cosi adesso sappiamo anche chi ha avuto l’idea di rivitalizzare terreni abbandonati abbinandola ad un’idea imprenditoriale e turistica che potrebbe realmente portare benefici qui in città). Come giornale abbiamo sempre appoggiato iniziative imprenditoriali come queste -in special modo quando imprenditori vogliono investire, senza speculare sulla città (citare casi passati sarebbe qui inopportuno, ma sapete bene quali e quante battaglie su costruzioni abbandonate questo giornale sta portando avanti)-. E allora non ci resta che aspettare e vedere cosa succederà nel prossimo futuro, augurando alla Offtec e al suo presidente, Flavian Basile, di continuare sulla strada intrapresa finora.

 

Felice Presta

La mostra si protrarrà fino al 20 marzo.

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La Redazione 13 Marzo 2023 0
BlogCultura

Vienna 15 aprile 1902: la mostra che rivoluzionò l’idea di allestimento artistico.

Può una mostra artistica, essere così innovativa da incidere nella storia e nella concezione dell’arte? Sì, se prendiamo in considerazione quella che si aprì a Vienna il 15 aprile 1902, dedicata al genio artistico di Beethoven. Lì nel padiglione a forma di tempio costruito a Karlplatz e inaugurato nel 1898, su progetto di Joseph Maria Olbricht, ebbe origine una nuova idea dell’arte e di come esporla.

DER ZEIT IHRE KUNST, DER KUNST IHRE FREIHEIT, “Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” – era il motto scritto a caratteri d’oro sul frontone della struttura: un semplice cubo bianco sormontato da una cupola traforata, scandito da semplici motivi lineari che ne evidenziavano l’assetto geometrico.

Il palazzo della Secessione era distinto dagli altri edifici neobarocchi e neoromantici che caratterizzavano il paesaggio urbano di Vienna alla fine del XIX secolo. La Secessione era un’associazione fondata nella capitale asburgica nel 1897, sulla scia di analoghe iniziative sorte a Monaco (1892) e a Berlino (1893): si trattava di un gruppo eterogeneo di artisti e architetti uniti dal desiderio di rinnovamento della vita artistica ufficiale, in aperta contestazione con il pesante accademismo dell’epoca. L’opera d’arte dove diventare “totale”, diversi stili dovevano convergere nel medesimo spazio espositivo. L’innovazione più significativa della “Secession” fu proprio nella nuova progettazione dell’allestimento. A differenza di analoghi movimenti europei, quello austriaco si distinse subito per uno stile inconfondibile e ben definito. L’innovazione della mostra del 1902 era semplice: non si tratta più di allestire un semplice “set” adeguato, ma di concorrere attraverso opere molteplici alla creazione di una scenografia la statua di Beethoven realizzata dallo scultore Max Klinger e posizionata al centro del nuovo tempio, al posto dell’altare.

Olbricht aveva previsto pareti mobili e spazi trasformabili, riducendo la minimo gli elementi fissi. Fin da subito, con quella mostra e nell’organizzazione di quelle successive, fu messa in pratica la nuova concezione dell’allestimento: non più dipinti appesi alla rinfusa e in più file sulle pareti, ma un’unica sequenza di dipinti per ogni autore, ad altezza d’occhio e su sfondi adatti, in ambienti appositamente disegnati da un architetto allestitore che per l’occasione era Josep Hoffmann, molto attento alle sequenze geometriche, dove ogni elemento, seppur realizzato da artisti diversi, sembrava trovarsi al posto giusto.

Il presidente del gruppo viennese era un pittore trentacinquenne e già affermato, Gustav Klimt, il quale insieme a Hoffman sarà il principale protagonista dell’evento. La mostra del 1902 resta fondamentale nella breve e intensa, storia della Secessione. L’esperienza acquisita attraverso le decorazioni, gli arredi, l’uso dei più svariati materiali, condurrà alla fondazione della Wiener Werkstaette, un insieme di laboratori di arti applicate che apre un nuovo campo di attività, mentre la forte stilizzazione figurativa, che l’unità perseguita da Hoffmann nell’allestimento aveva fatto prevalere, si impose definitivamente come cifra dello stile secessionista.

 

Felice Presta

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La Redazione 5 Febbraio 2023 0
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Sull’Euro e sui dogmi di politica monetaria

Dal 2002, la maggior parte di noi europei spende una moneta, cui non corrisponde alcuno stato. Caso unico al mondo, quel che dovrebbe essere la massima espressione della sovranità, continua a non avere un sovrano. C’è un controllore, la Banca Centrale Europea, senza un contrappeso politico, altra stravaganza di una situazione dalle conseguenze imprevedibili. Il destino dell’euro come moneta orfana di un governo è scritto nel suo codice genetico. Come altre unioni monetarie del passato, quella europea è stata giustificata con ragioni tecniche, ma è basata su logiche puramente politiche. Forse ve l’hanno raccontato molte volte, ma l’euro è soprattutto un desiderio dei francesi e dell’allora presidente Mitterand, dopo la riunificazione della Germania nel 1990, che minacciava di ricreare una propria politica di potenza al centro dell’Europa, in virtù di un forza economica notevole grazie alla supremazia del marco e a un solido sistema industriale. Da qui l’idea, di proseguire in fretta e furia, verso la moneta unica nell’illusione di imbrigliare la Germania, ottenendo esattamente il risultato opposto. L’euro per i tedeschi ha avuto l’effetto di una svalutazione competitiva, consentendogli un aumento delle esportazioni e del potere decisionale attraverso la forza economica.
Senza un qualche tipo di unione politica, si è deciso di sparpagliare la sovranità monetaria a tutti, praticamente a nessuno. Anche perché, se l’euro fu fatto, in un certo senso, contro la Germania, fu con questa che si dovette discutere al momento di scrivere le nuove regole che così imposero una banca centrale unica che ricalcasse nello stile e nella mentalità la Bundesbank tedesca, senza il controllo di nessuna autorità politica.
Quello di Maastricht è un testo strano, le cui pagine riflettono appieno la genesi franco-tedesca del progetto monetario europeo. Ai principi illuministici, mutuati direttamente dal mito della rivoluzione francese, si alternano passaggi di tecnica monetaria, che risentono fortemente delle teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, particolarmente in voga in certi ambienti finanziari tedeschi vicini al governo. L’idea principale risiede nel sacro terrore dell’inflazione e nella funzione deflazionistica del ruolo della Banca Centrale, il cui mandato consiste nel tenere semplicemente sotto controllo l’andamento dei prezzi. Una ferrea disciplina monetaria. Questa politica deflazionistica è troppo rigida e, soprattutto, poco compatibile con le economie dell’Europa meridionale, storicamente meno efficienti e più avvezze alle svalutazioni. Non diciamo niente di nuovo. Le unioni monetarie generano squilibri notevoli, come spiegato bene dal cosiddetto “ciclo di Frenkel”. (1) Non è chiaro fino a che punto, nella fase di gestazione dell’euro, quali fossero le posizioni nell’elites europee, al di fuori della Germania. A giudicare dalla loro condotta, l’errore è stato quello di considerare il Trattato di Maastricht come un semplice accordo politico, nella sua genesi e soprattutto nell’applicazione. Un accordo flessibile, suscettibile di ogni genere d’interpretazione, a tal punto da illudersi di poterlo aggirare. Non vi sembra il momento giusto per contestare certi dogmi?

NOTA

Il ciclo di Frenkel si compone di sette fasi.

1. All’interno di un’area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali e dunque non ci sono più vincoli protezionistici al trasferimento finanziario tra i singoli paesi.

2. Siccome i capitali circolano liberamente, inizia un afflusso di risorse dai Paesi del “centro” verso quelli della “periferia”. I paesi del “centro”, sono quelli più forti finanziariamente perché hanno svalutato il cambio entrando nell’unione valutaria (la Germania col passaggio all’euro è come se avesse “svalutato” il vecchio marco). I paesi della periferia invece, hanno dovuto rivalutare il cambio per entrare nell’area valutaria comune (es. l’Italia ha rivalutato la lira passando all’euro). Ovviamente i paese più solidi del “centro” trovano vantaggioso trasferire capitali in periferia perché i tassi di interesse di quest’ultima, sono più alti e in ogni caso si tratta di prestiti dove non c’è il rischio del cambio monetario (essendo unica la moneta, ma lo stesso discorso vale con monete diverse, ma di pari valore).

3. L’afflusso di capitali (soldi in prestito) alimenta la domanda delle famiglie e delle imprese della periferia, generando crescita dei consumi e degli investimenti. Di conseguenza aumenta il PIL e migliorano i conti pubblici perché aumenta il gettito fiscale connesso all’espansione economica.

4. L’aumento dei consumi e degli investimenti favorisce la crescita del Prodotto Interno Lordo ma anche l’inflazione (troppo credito equivale a troppa moneta in circolazione). Nell’economia periferica che cresce, aumentano i prezzi, i debiti privati, il credito al consumo e spesso aumentano i valori immobiliari. Tutta questa crescita è di fatto una “droga” somministrata dall’arrivo di capitali dal “centro” e ciò si riscontra proprio dall’aumento del debito privato che cresce più rapidamente di quello pubblico, che nella terza fase tende a diminuire.

5. Uno shock interno o esterno fa scoppiare la bolla del debito privato. Non c’è più garanzia di restituzione e a questo punto i paesi del centro bloccano i rifornimenti alla periferia. (esempio di shock la crisi dei mutui subprime negli Usa nel 2008)

6. A questo punto venendo a mancare la liquidità dal centro, si innesca un corto circuito per cui i Paesi della periferia vanno in “recessione”. Il debito pubblico aumenta e contemporaneamente calano i consumi e gli investimenti. Cala il PIL e il rapporto deficit/pil peggiora e si attuano politiche di restrizione fiscale (tagli di spesa e aumento delle tasse) che di solito, peggiorano la situazione.

7. Il peggioramento dei conti pubblici rende la situazione insostenibile per la periferia che non ha alternative se quella di sganciarsi dall’unione valutaria a meno che, gli squilibri non vengano corretti con un intervento politico (nel nostro caso le istituzioni europee)

 

Felice Presta

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La Redazione 13 Gennaio 2023 0
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