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Home Archivia per categoria "Cultura"

Category: Cultura

BlogCultura

Depressione: quando la luce si spegne

 “Di quei tempi ero fatto per sprofondare ad ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.”

Luigi Pirandello

 

La depressione è un male dilagante, molto è stato detto e scritto sull’argomento: articoli, libri, da quelli tecnici, ai manuali, sino ad arrivare alle storie di chi l’ha combattuta personalmente, fino a sconfiggerla. Quando pensiamo alla depressione, immaginiamo una persona triste, che non si prende cura di sé, scontrosa, che si chiude al rapporto con l’altro, una persona che fatica ad alzarsi dal letto per fare anche le cose più semplici: lavarsi, andare a lavorare, prepararsi da magiare, persino abbracciare una persona a cui vogliamo bene e dimostrare il nostro affetto, diventa sinonimo di fatica, quasi come se le emozioni non riuscissero a oltrepassare lo strato di epidermide per arrivare a toccare la nostra parte più profonda.

 C’è chi ha paragonata la depressione a un cane nero, che ti azzanna alla gola, ferendoti a morte, chi l’ha descritta come assenza, come vuoto assoluto, come qualcosa che ti lacera dentro, fino a rosicare la parte migliore di te, quella stessa parte che ti fa venire voglia di alzarti al mattino, quella che ti fa venire voglia di stringere fra le braccia il tuo cane, o un bambino, anche quando il bambino in questione è tuo figlio, che ami più di qualsiasi cosa al mondo.

Sentirsi depressi è una condizione che svilisce, ci estranea dal mondo: penso alla sua complessità, a tutte le sue sfaccettature, ai diversi modi con i quali può aggrapparsi a qualcuno, risucchiandolo in un vortice di pensieri negativi, di preoccupazioni ossessive, fino al totale annientamento.

 Quante volte confondiamo la tristezza con la depressione: abusiamo di questa parola, basta un momento di tristezza, o di malinconia, che ci definiamo depressi. In realtà essere tristi capita a tuti, succede spesso di avere un momento di sconforto, un momento dove siamo sconsolati, perché ci è successo qualcosa di brutto.

Essere tristi, non è come essere depressi.

Cosa ci aiuta a capire, quando quello con cui combattiamo tutti i giorni è il cane nero che ci azzanna alla gola, oppure è soltanto un brutto periodo? Cosa differenzia la vera depressione dalla tristezza?

La tristezza è un’emozione: quando siamo tristi, seppur con fatica, riusciamo a portare avanti la nostra vita: ci alziamo, ci laviamo, andiamo a lavoro, riusciamo nel bene o nel male a prenderci cura di noi stessi. Abbiamo consapevolezza del nostro malessere, lo riconosciamo, spesso riusciamo a capire da dove viene, da dove nasce la sofferenza che ci portiamo dentro, siamo in grado di darle un nome, di darle un significato all’interno della nostra vita.

Quando siamo depressi no. La depressione, quella vera, ci limita in tutto, fino a farci abbandonare tutto ciò che ci rende vivi.

Ci annulla completamente, siamo come anestetizzati, le nostre emozioni sono appiattite, non sappiamo come restare a galla, non riusciamo a trovare un’ancora di salvezza alla quale aggrapparci, nell’oceano nero in cui affoghiamo. Tutta la nostra vita si ferma, come se qualcuno avesse deciso di chiuderci a chiave in una stanza, senza rumore, al buio, con l’impossibilità di uscire.

La depressione non è come un momento di tristezza, la depressione è una vera e propria malattia.

Ma siamo certi che la depressione sia soltanto questo? Siamo sicuri che sia soltanto legata a stati d’animo così angosciosi, così evidenti, che piano piano ci avvelenano, che ci paralizzano, rispetto a quelle che sono le nostre emozioni e le nostre azioni quotidiane?

 La depressione non è soltanto quella che si palesa a noi in maniera così evidente, esiste un cane nero che può nascondersi dietro un viso truccato, dietro un manager di successo, dietro un sorriso, dietro un malessere fisico a cui spesso non sappiamo dare una spiegazione: la depressione quando non si mostra in maniera evidente si chiama mascherata, proprio perché nasconde la sua presenza nel corpo dolorante.

Il cane nero, ci parla attraverso dei malesseri apparentemente di altra natura, come ad esempio: il mal di testa, i disturbi gastrointestinali, il mal di schiena, una spossatezza psicofisica generalizzata. È allora che cerchiamo di trovare la causa dei nostri dolori in patologie organiche, in malattie che poco hanno a che fare con la nostra sofferenza, proprio perché fatichiamo a identificare il nostro malessere: la depressione, quella mascherata, come quella che si palesa chiaramente ai nostri occhi, è subdola.

Oltre al vuoto, all’assenza assoluta, quando siamo malati quello che percepiamo è il senso di colpa: ci colpevolizziamo perché non riusciamo a reagire, perché non riusciamo a prenderci cura di noi stessi e delle persone che abbiamo accanto a cui vogliamo bene.

Ci alziamo una mattina, pensiamo che da quel giorno sarà diverso, perché dobbiamo impegnarci, perché ce la dobbiamo fare a tirarci fuori dal vortice nero nel quale siamo piombati, ma poi arriva la sera, e la sensazione di fallimento è cocente come lava.

La delusione è su due fronti: da una parte ci sentiamo appunto dei falliti, e dall’altra ci sentiamo colpevolizzati da chi abbiamo intorno, da chi non si spiega la nostra mancanza di forza, perché la convinzione, è che basterebbe soltanto un pezzettino, ma giusto un pezzettino di volontà in più, per tirarci fuori dal nostro malessere. È allora che la sensazione di fallimento è ancora più profonda, la sensazione di essere da soli nella sofferenza si fa strada, acuendo ancora di più il nostro dolore.

Come lo spieghiamo alle persone che ci circondano, che noi vorremmo tirarci fuori da quel torpore che ci consuma giorno dopo giorno, ma che proprio non ce la facciamo? Come glielo spieghiamo alle persone, che se ci fanno sentire in colpa, ci fanno stare ancora più male, e che non è con la forza di volontà, che possiamo scrollarci di dosso questo peso che ci schiaccia il petto, come un macigno insopportabile, di cui non abbiamo consapevolezza e che in fondo non sappiamo da dove viene?

Non si esce dalla depressione con la forza di volontà, o con l’aiuto delle persone che ci circondano. L’affetto dei nostri cari non basta, rischiamo di cronicizzare ulteriormente qualcosa che già ci appiattisce, che ci annulla, procrastinando lo stato di malessere e allontanandoci sempre di più dalla vita.

La depressione, è una vera e propria malattia.

E come tutte le malattie va curata, chiedendo l’aiuto delle persone giuste: con un approccio combinato con i farmaci e la psicoterapia, quando la malattia è in uno stato molto avanzato, fino ad arrivare alla sola psicoterapia, quando siamo raggiungibili con le parole, quando le parole riescono ad attraversare quello schermo invisibile che ci ha isolato da noi stessi e dal mondo.

La depressione si cura, dalla depressione si guarisce…

 

Marilena De Cicco (psicoterapeuta)

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La Redazione 30 Settembre 2025 0
BlogCultura

QUANDO CHIEDERE AIUTO FA PAURA

 “Non è tanto dell’aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia che al bisogno ce ne potremo servire.”

Epicuro

 

Riesci a chiedere? Ti sei mai chiesto perché è così difficile chiedere aiuto? Cosa ci spinge a non rivolgerci a un’altra persona quando sentiamo di aver bisogno di aiuto?

Capita a ognuno di noi di attraversare un momento critico: un cambiamento di lavoro, un lutto improvviso, un periodo difficile con il/la nostro/a partner, l’adolescenza dei nostri figli e perché no, semplicemente una brutta giornata, una di quelle dove parlare con qualcuno è proprio quello di cui avremmo bisogno. A volte ci capita di sentirci soli, con la sensazione che nessuno possa comprendere il nostro stato d’animo, che nessuno possa comprendere la nostra sofferenza, che nessuno possa prenderci per mano e accompagnarci, fino a quando quella sensazione di malessere possa scomparire, o quanto meno attenuarsi.

È allora che spesso piuttosto che aprirci agli altri ci chiudiamo.

Ci chiudiamo nel nostro guscio, nel nostro mondo, ci proteggiamo, serrando bene tutte le porte, perché solo quello, per noi è un posto sicuro. Lo conosciamo: dal nostro piccolo mondo sappiamo bene cosa aspettarci, mai nessuno deluderà le nostre aspettative. Perché è proprio di questo che si tratta: uno dei motivi per cui ci chiudiamo in noi stessi è la paura della delusione, la pura che quella persona non ci potrà aiutare come vorremmo o addirittura che quella persona non lo faccia affatto. Si fa strada in noi la paura del rifiuto, la paura del giudizio, e la vergogna di non essere all’altezza della situazione, di non essere in grado di gestire da soli qualcosa che appartiene alla nostra vita: sensazione amplificata dall’ attenzione spasmodica per le performance, che ci definiscono e dalle reti sociali che tendono a diradarsi in favore di un individualismo sempre più pressante.

Ma da dove nasce la convinzione che nessuno ci aiuterà, la paura del giudizio e la vergona?

Sono molteplici le motivazioni che possono spingerci a chiudere la porta all’altro: molto dipende dalla nostra vita, da come abbiamo sentito sulla nostra pelle di poterci affidare a qualcuno senza essere delusi, senza essere giudicati. Una delle ragioni è certamente da ricercare nella nostra infanzia: una paura che viene da lontano, da quando eravamo bambini.

 Quando già da piccolini qualcuno ha deluso le nostre aspettative.

È all’interno della nostra famiglia di origine, all’interno di quelli che sono i nostri legami più autentici che si instaura il senso di fiducia verso l’altro.

È attraverso il rapporto con le nostre figure di accudimento primarie, che nella maggior parte dei casi sono rappresentate dai nostri genitori, che sperimentiamo per la prima volta la fiducia: sono loro a rispondere per primi alle nostre necessità, anche a quelle più intime. Quando cresciamo in una famiglia, dove l’attenzione per i nostri bisogni è stata soddisfatta, in un ambiente dove le nostre paure, come le nostre necessità, sono state accolte e ascoltate, impariamo ad avere fiducia, non solo in noi stessi ma anche nell’altro, impariamo ad aspettarci che l’altro possa rappresentare per noi fonte di vicinanza emotiva, impariamo che possiamo chiedere aiuto, che possiamo esporci, senza che questo rappresenti per noi motivo di paura o addirittura di sofferenza.

È necessario scardinare le nostre titubanze, arginare la diffidenza, mettere da parte la preoccupazione del rifiuto e della delusione, perché solo questo ci porta a uscire allo scoperto, a uscire dalla nostra zona confort e trovare la forza di chiedere: alla nostra famiglia, al nostro amico più caro o all’esperto, quando ci rendiamo conto che le persone che ci sono intorno e che ci vogliono bene non posseggono le giuste competenze per aiutarci. Mostrare all’altro le nostre debolezze, le nostre fragilità, senza la paura di sentirsi giudicati o sminuiti, aiuta in primis noi stessi: aumenta il nostro livello di consapevolezza e rafforza il sentimento di fiducia che abbiamo verso noi stessi e verso l’altro.

Perché è importante chiedere aiuto:

  • Chiedere aiuto crea relazioni: l’uomo è un essere sociale, in quanto tale non può vivere da solo, tutti noi, prima o poi abbiamo bisogno di aiuto.
  • Chiedere aiuto ci rende consapevoli dei nostri punti di forza e delle nostre debolezze: dopo un rifiuto, dopo una delusione proviamo a darci un’altra possibilità.
  • Chiedere aiuto ci può sollevare da un problema al quale non riusciamo a trovare una soluzione: confrontarsi con l’altro, soprattutto un esperto, può aiutarci a dare una lettura diversa alla nostra realtà.

Impariamo a chiedere aiuto, impariamo a darci una chance: impariamo a fidarci di noi stessi e rivolgiamo la stessa fiducia a chi abbiamo scelto come nostro interlocutore.

 

Marilena De Cicco 

psicologa e psicoterapeuta sistemico-relazionale

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La Redazione 23 Settembre 2025 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne? Va benissimo, ma perché aumentano?

Riprendere a scrivere dopo tanto tempo non è facile ma l’argomento non solo è di attualità ma è, per me, importantissimo: quello sulla violenza sulle donne.

Lo scorso 25 novembre c’è stata la giornata dedicata…belle le foto sui social, gli speciali sui tg e sui giornali. Tutto bello ma a che cosa serve?

Mi spiego.

La sensibilizzazione va benissimo ma deve essere seguita da fatti concreti.

I dati sulle denunce non diminuiscono, ma anzi aumentano.

Cosi come gli omicidi, le minacce, le violenze e cosi via.

Perché?

Dopo aver attentamente e giornalisticamente studiato il fenomeno (eh già mi hanno insegnato a studiare prima di affermare determinate cose), anche dalla parte normativa -cioè partendo dalle denunce fino ad arrivare ai tribunali- posso tranquillamente affermare senza tema di smentita che, codice rosso o meno, dalla denuncia della potenziale vittima alla lettura del fascicolo da parte del magistrato -e qui parlo solo di lettura, non di atti coercitivi- passano dai quattro ai sei mesi.

Solo in caso di flagranza di reato, difficili in molti dei casi come quelli citati prima, si può e si fa qualcosa in più.

Sennò si va avanti con una, due, cinque, dieci denunce nel frattempo che il magistrato incaricato valuti l’ormai enorme fascicolo e decida poi qualcosa al riguardo.

Non va bene, non va per nulla bene.

Se ci fate caso il più delle volte, nei femminicidi, le vittime avevano fatto più denunce. Avevano allertato più volte le forze di Polizia…ma il tempo trascorso aveva poi permesso all’assassino di mettere in pratica i propositi maturati nel tempo.

Le forze dell’ordine non hanno colpe visto il vincolo che li lega alle decisioni di un giudice.

E neanche i consigli che danno (allontanatevi, non rispondete, non reagite e cosi via) possono essere d’aiuto in molti dei casi.

Torniamo ai magistrati? Anche loro non hanno colpa visto le tante pratiche che si accumulano sulle loro scrivanie e non possono essere smaltite in breve tempo.

Si è fatto tanto per la sensibilizzazione, come ho detto, si è attivato un numero verde il 1522, alcune procure hanno attivato sportelli appositi, la normativa al riguardo è stata aggiornata anche con l’aggiunta nel codice penale del femminicidio. Rimane il blackout dalle denunce al fare qualcosa al riguardo (ad esempio obbligo di non avvicinarsi alla persona).

Passa troppo tempo e questo tempo, molte volte, è fatale per le donne che devono subire.

 

Felice Presta

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La Redazione 30 Novembre 2024 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Inchiesta conoscitiva su attacchi di panico e altro negli ultimi tempi

Compito di un giornalista d’inchiesta è tenere sempre gli occhi e le orecchie bene aperte ed osservare ciò che succede intorno a lui e, quando si verifichino anomalie, cercare di dare delle risposte a queste.

Non sono un medico quindi cercherò di spiegare delle cose dal punto di vista del…paziente.

Negli ultimi tempi, diciamo nell’arco di un anno, con accelerazioni negli ultimi 6 mesi, c’è stato un incremento dei cosi detti STATI D’ANSIA E DI PANICO.

In che cosa consistono? Il corpo, sia pure respirando profondamente, sembra che non riceva abbastanza aria nei polmoni e quindi, il più delle volte, si è costretti a iperventilare per tornare alla normalità.

Non sempre ci si riesce e, appunto, si va nel panico.

In alcuni casi questi attacchi portano anche ad aritmie cardiache di media importanza.

Se siano connessi i due stati non lo so, per questo scrivo l’articolo, per fare in modo, con i vostri commenti, di avere un’idea più chiara di ciò che sta succedendo.

Potrei pensare che la presupposta mancanza di ossigeno, o la sensazione se cosi la vogliamo chiamare, porti poi ad un’accelerazione dei battiti del cuore e quindi all’aritmia. Questo lo dovrebbero poi spiegare i medici.

Questi sintomi, che ho avuto modo di constatare in prima persona, e poi con altre due persone vicine, vengono su uomini che hanno superato, o sono prossimi, alla cinquantina. Di donne non ne ho avuto notizie.

Questa anomalia è solo l’unica di tante altre verificatesi in un arco di tempo più ampio, diciamo due o tre anni e che vado ad elencare in ordine di casi.

  • Mal di schiena. Ma non quello normale bensì un dolore costante e persistente che può durare dai due ai sei mesi nella parte centrale alla fine della colonna vertebrale in prossimità del coccige. Una volta che il dolore è passato rimane, toccandosi, comunque quello sottocutaneo, come se si fosse preso una botta, e limita nei movimenti il corpo di chi lo ha subito.
  • Spossatezza, chiamiamola voglia di non fare nulla. Non si desidera uscire, stare con la gente, passeggiare eccetera. Io l’ho definita sindrome lockdown. Ma non è comunque uno stato mentale bensì fisico. E come se il fisico dicesse al corpo STAI A CASA. E quando non ci sei magari provoca un senso di insofferenza e indifferenza per il mondo fuori di essa.
  • Naso chiuso in modo perenne e anomalo. E qui entro in ballo ancora io. Pur avendo la deviazione del setto nasale che mi fa respirare male -per cui ogni anno consumo nel periodo invernale almeno una boccetta di decongestionante- quest’anno, da novembre ad oggi, ne ho consumati…cinque. Tra l’altro ho notato che il naso chiuso contribuisce alla sensazione della mancanza d’aria e della difficoltà a respirare.
  • Mal di testa continui e sinusiti
  • Sindromi influenzali che permango anche dieci, dodici giorni dopo che è passato lo stato febbrile. Magari con una ricaduta nel periodo immediatamente successivo.

Ci sono altri sintomi, che qui non elenco, perché trovati in giro in maniera minore.

Naturalmente non sto presupponendo che ciò sia dovuto al COVID o ai vaccini. Lo scrivo giusto per evitare eventuali diatribe tra chi si è vaccinato e chi no.

Fin qui quello che ho visto e trovato in giro. Prima di chiedere lumi magari a un dottore o a un esperto vorrei a questo punto il vostro parere e vedere se la cosa, in alcuni casi, è più generalizzata a differenza di altri.

Potete quindi commentare su questo articolo, telefonare al 338-2415614, oppure mandarci un’email a sannioreport@gmail.com .

Tutte le informazioni raccolte verranno catalogate per farne un elenco, dopodiché chiederò parere su queste anomalie fisiche che molte persone stanno avendo negli ultimi tempi.

Vi ringrazio fin d’ora per la collaborazione.

Felice Presta

 

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La Redazione 18 Gennaio 2024 0
BeneventoBlogCulturaDocumenti

Salutiamo i reperti di piazza Cardinal di Pacca (piazza Santamaria)

Come ho più volte scritto parlare di Cultura in questa città (dove per cultura si intende anche e soprattutto la valorizzazione del nostro patrimonio storico-archeologico) sta diventando ogni giorno sempre più difficile. Per l’ignavia di cittadini e amministrazioni, certamente, ma anche per il fatto che quei pochi “CHE FANNO” non riescono a mettersi d’accordo unitariamente per presentare progetti e quant’altro in modo da costringere chi di dovere ad ascoltare. Poi c’è l’onda lunga del “momento” come quella di piazza Cardinal di Pacca, cioè una micro sollevazione-indignazione popolare che porta la politica e la sovrintendenza a cambiare i Progetti (sbagliati) iniziali. Molto lo si deve all’opposizione al Comune di Benevento con i consiglieri come Moretti e Perifano che, carte alla mano, hanno costretto al cambio.

Martedì 27 giugno ci sarà una manifestazione a questo proposito, e precedentemente anche una raccolta di firme, che secondo il sottoscritto lasciano il tempo che trovano. Anche perché la decisione già è presa: si ricopre tutto. Perché? Perché l’amministrazione non ha interesse a recuperare l’area, la sovrintendenza si nasconde dietro “non teniamo soldi” e quindi rimane ciò che è stato deciso.

Si farà un infopoint light, il prossimo anno torneranno le giostre e tutto finirà nel dimenticatoio.

Come dite? Perché ne sono cosi sicuro? Perché sono esperienze già vissute in precedenza, con i Sabariani, con Torre Biffa, con Cellarulo, i resti del mercato romano del Malies e cosi via…

La storia degli ultimi trent’anni è costellata di episodi del genere e non si è mai trovata la via per un recupero o per una valorizzazione adeguata di ciò che abbiamo, di ciò che sappiamo di avere e di ciò che troveremo spostando 10cm di asfalto. Un discorso settoriale in questo senso, sulla spinta emozionale del momento, non serve a nulla tantomeno a ciò che c’è sotto piazza Cardinal di Pacca. L’ho detto e lo ripeto: è meglio che vengano risotterrati i reperti trovati perché altre soluzioni economiche non ce ne sono. Una sola ipotesi è possibile nel caso si voglia realmente attuare un progetto di valorizzazione dei reperti sulla piazza. Creare una struttura fissa che protegga dalle intemperie e non lastre di plastica che, dopo un paio di anni complice l’umidità della città, non faccia più vedere ciò che si cela li sotto.

Dal discorso sembro sfiduciato? Certamente, e state parlando con chi ha messo in piedi l’operazione Santi Quaranta, ripulito e fatto diventare di proprietà comunale il campanile di Santa Sofia e ripulito i resti dell’anfiteatro gratuitamente (adesso daranno a una ditta 25 mila euro circa per fare la stessa cosa). Ci vuole programmazione economica, una visione di città che da 40 anni non c’è mai stata, ci vuole impegno, fatica e sudore. Ma è meglio tagliare nastri e accedere al successivo buffet piuttosto che fare una cosa del genere. Ci si stanca di meno.

Felice Presta

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La Redazione 22 Giugno 2023 0
Cultura

Il Surrealismo come movimento e avanguardia artistica

 

I fuochi della prima guerra mondiale si sono spenti da poco e a Parigi vivono la maggior parte degli animatori dell’arte più eversiva. Francis Picabia, Tristan Tzara, Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray. È a loro che guardano con ammirazione due giovani intraprendenti, Andrè Breton e Philippe Soupault.

Siamo in pieno sviluppo di quella vita metropolitana, caratterizzata da una moltiplicazione esponenziale degli stimoli sull’individuo, ben compresa e descritta da Simmel, anni prima.

Il mondo dell’arte non resta immune. La fondazione della rivista Littérature, con il contributo decisivo di Louis Aragon, diventa il laboratorio attraverso il quale maturano le esperienze che porteranno al Surrealismo. All’inizio l’obiettivo è ancora quello di un’arte “totale” ovvero di un atteggiamento comune a tutte le discipline, dal teatro alla pittura, in grado di sminuire le singole tecniche e i relativi linguaggi in favore di una creatività legata all’umore dell’individuo che sceglie di volta in volta lo strumento per esprimersi.

La parola deriva da sur-réalisme, contenuta nel programma di sala di Parade, spettacolo di Guillaume Apollinaire, andato in scena il 17 maggio 1917 al teatro dello Chatelet.

Littérature promuove e organizza delle serate sull’esempio di quelle futuriste e del Cabaret Voltaire di Zurigo che diede origine al movimento Dada. Da lì parte tutto. Breton è prima una “dadaista” ma poi si distacca progressivamente perché vuole strutturare il movimento e i dadaisti rifiutano per principio questa idea. L’incontro e poi lo scontro con Tristan Tzara è decisivo per Breton. I due, insieme a Marinetti sono l’esempio tipico dell’uomo dell’avanguadia artistica: sradicato, deviante, ironicamente critico verso il sistema di valori della società.

Tra il 1920 e il 1925 succede di tutto: serate folli a teatro, conferenze, manifestazioni di disturbo all’interno di occasioni ufficiali (far notizia e balzare agli onori della cronaca è una strategia ispirata al Futurismo italiano), congressi programmatici, volantini e interventi provocatori su riviste, al limite dell’arroganza.

Di Dada, il nascente Surrealismo prosegue l’idea di voler essere un modo di vivere a agire radicale più che un orientamento creativo in senso stretto: di Dada rifiuta, come emerge dalla rottura tra Tzara e Breton che avviene nel 1922 tra roventi polemiche, il sottofondo troppo nichilista vagamente apocalittico.

Breton è affascinato dagli eventi della rivoluzione sovietica e scorge nell’arte un altro modo di intervenire nelle realtà sociale. Almeno fino al 1925, si trasforma nel custode di un rigorismo rivoluzionario e di una proclamata ortodossia surrealista che lo porterà a decretare molte scomuniche verso De Chirico, Artaud, Aragon e persino a Soupaul.

L’interesse preminente delle ricerche del primo Surrealismo è verso i linguaggi intesi come meccanismi in cui il senso, anziché essere manifestato, viene mistificato. Si riscoprono in questo ambito alcuni versi di Rimbaud, Ducasse e Roussel, in cui la chiarezza della forma lascia il posto al suono oscuro, al significato ambiguo delle parole, alla dissoluzione della struttura del discorso.

Si affrontano temi come la psicoanalisi, l’esoterismo, l’ipnosi, il sonno, tutte quelle situazioni di “sospensione della razionalità”, in cui si ritiene che l’individuo esprima la singolarità più autentica senza il filtro della consuetudine. Ancora, su un piano più legato alle modalità e alle tecniche del linguaggio, molta importanza si attribuisce al calembour, al paradosso verbale, allo humor.

Si legge nel “Manifesto del Surrealismo” redatto da Breton nel 1924: “Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere il funzionamento reale del pensiero, è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, di là da ogni preoccupazione estetica e morale”.

La scrittura automatica viene descritta da Breton e Eluard nel Dictionnaire abrégé du surréalisme: “Gioco consistente nel far comporre una frase, o un disegno, da più persone senza che alcuna di esse possa tener conto della e delle collaborazioni precedenti (…)”

L’esempio classico di questa tecnica è il “cadavre exquis”, che da nome al gioco: “il cadavere squisito berrà il vino nuovo”. Sullo stesso livello, l’esperienza di Robert Desnos che nel 1922 compone una serie di aforismi e giochi verbali in condizione di sonno ipnotico.

Per quanto concerne le ricerche sull’arte in generale, la svolta avviene alla fine del 1924, con l’uscita del primo numero della rivista La Révolution Surréaliste e la creazione del Bureau central de recherches surréalistes, aperto l’undici ottobre 1924 al 15 rue de Grenelle, una specie di centrale ideologica del movimento. La rivista ha tra i suoi esponenti principali: éluard, Crevel, Artaud, Duchamp, Masson, Ernst e altri.

L’anno successivo Breton captando le mutazioni avvenute nella ricerca artistica, inizia a teorizzare il surrealismo nella pittura che prende forma in una mostra alla galleria “Pierre” con de Chirico, Klee, Ernst, Arp, Mirò, Picasso, Man Ray e Pierre Roy. In verità Breton si limita a registrare una tendenza artistica che si stava delineando in modo autonomo e cerca anche in questo caso di definire una serie di regole da osservare, ma il confine è sottile, come si può imbrigliare in un’ideologia una pittura legata a stati alterati della psiche, alla sospensione del razionale?

Da un lato come guardiano della “fede”, Breton può bollare come segno di compromissione mondana le scenografie di Ernst e Mirò per i Balletti Russi. Per altro verso, comincia un attività di proselitismo attraverso nomi come Mesens, Magritte, Dalì, Tanguy, Delvaux, per ottenere quel successo e quella diffusione del Surrealismo, com’era stato per il Futurismo negli anni precedenti. Il duro lavoro porta a risultati concreti: nel 1926 apre i battenti la Galerie Surréaliste, luogo di mostre e manifestazioni. Da quel momento il Surrealismo è una realtà riconosciuta e rispettata nel mondo dell’arte.

Sogno, zone oscure della coscienza, automatismo psichico, allucinazione, confusione di segni e parole. Tutti elementi che ritroviamo nelle opere surrealiste, soprattutto nelle arti visive dove una serie di deroghe alle regole classiche, trovano una pedissequa applicazione con eccessi al limite del kitsch.

È il caso di due surrealisti della prima ora, Ernst e Mirò. Il primo, già esponente del Dada tedesco, è artefice di collages con inserti oggettuali ed esperto del frottage, una tecnica di disegno e pittura, basata sullo sfregamento e già nota nell’antica Grecia. L’immaginario di Ernst è composto da visionarietà nordica, incline al mostruoso e all’angoscioso con riferimenti all’esoterismo rinascimentale. Mirò invece, utilizza una tecnica stilistica omogenea e classica, ma dipinge forme e segni riferiti a elementi primitivi, ricchi di colori per ottenere un effetto cromatico potente.

Proviene dal Dada anche Man Ray, che in questi anni prosegue la pratica dei “raygraphs”, basati sulla tecnica della stampa a contatto, con l’uso sapiente del fotomontaggio e delle solarizzazioni. Il tutto per dimostrare come la tecnica fotografica non si riduca alla semplice riproduzione di immagini catturate nella realtà visibile, ma possiede infinite possibilità. In quel periodo, Ray è attivo in una serie di sperimentazioni cinematografiche: nel 1923 realizza Retour à la raison, l’anno successivo partecipa con Duchamp, Picabia e Satie a Entr’acte di Renè Clair, nel 1926 sempre con Duchamp e Marc Allégret fa Anémic cinéma e poi realizza un’altra pellicola Emak Bakia. Nel 1929, lo stesso anno del Chien andalou, di Bunuel e Dalì, gira Les Mystéres du château de dé.

Tali sperimentazioni hanno tutte un solo filo conduttore: nulla vogliono né significare, né esprimere, rendendo omaggio al caso, all’assurdo, agli inciampi della ragione e del linguaggio. Caso a parte è quello di Salvador Dalì. Inviso agli altri esponenti del movimento per il suo esibizionismo e per la spasmodica ricerca di notorietà, egli è il teorico della “paranoia critica”, che definisce «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critica di fenomeni deliranti». Infatti tutte le immagini e le figure, sono forme che si agitano nell’inconscio dell’artista catalano che riproduce sulla tela ciò che l’irrazionale fa apparire e che Dalì chiama “paranoia”. Così si spiega il contesto onirico in cui si combinano figure simboliche e allusive.

Alla fine del decennio, l’irrequieto gruppo surrealista si sfalda definitivamente. La scelta di Breton di passare a una politicizzazione del movimento, che lo porterà a chiudere La Révolution Surréaliste e a pubblicare, tra il 1930 e il 1933, Le Surréalisme au service de la Révolution, allontana autori come Bataille, Limbour, Masson, Vitrac, più interessati a temi come l’antropologia e il sacro che affrontano nella rivista Documents. Nel 1933, poi, la rivista Minotaure, fondata dal Albert Skira, aggregherà il gruppo stretta-mente artistico: Tanguy, Dalì, Duchamp, Mirò, Arp, de Chirico, Bellner. Nel gennaio 1938 si tiene alla Galerie des Beaux-Arts di Georges Wildenstein, a Parigi, l’Exposition Internationale du Surréalisme, celebrazione del movimento proprio nella fase della sua crisi definitiva.

a cura di Felice Presta e Vincenzo Bovino

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La Redazione 11 Giugno 2023 0
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Carroll Quigley e la dimensione oligarchica della storia

La letteratura sulle cospirazioni è ricca, non conosce crisi. Ultimamente, diversi autori, per lo più americani, sono diventati milionari grazie a ricostruzioni e descrizioni del nuovo ordine mondiale. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: un manipolo di uomini controlla tutto all’interno di organizzazioni riservate. Ma è proprio tutto così semplice? Il problema di questi libri è una notevole superficialità nel trattare l’argomento, così come una eccessiva semplificazione che non aiuta a comprendere l’effettiva trama del potere, le sue articolazioni su più livelli e la dialettica all’interno degli stessi apparati. La questione è molto più complicata, non si può ridurre con qualche nome e sigla da offrire come grande cospiratore, altrimenti finiamo nel romanzo popolare. Meglio leggersi “La storia dei tredici” di Honoré de Balzac.

C’è stato un periodo in cui l’analisi del Potere internazionale e delle sue articolazioni era una questione più seria. Pochi conoscono il Professor Carroll Quigley, controverso storico, che insegnò ad Harvard, Princeton e Georgetown tra gli anni quaranta e settanta del Novecento. Egli era convinto che l’establishment nel mondo anglo-americano fosse un argomento tabù su cui gli studiosi di alto rango non si fossero mai davvero cimentati. Lo stesso Quigley si considerava un membro delle alte sfere e si dichiarava espressamente d’accordo con le idee guida di questa classe dirigente, anche se non condivideva l’eccessiva riservatezza della rete di potere.

Così Quigley, con una ricerca durata molti anni, ricostruisce famiglie, connessioni e modus operandi di questi gruppi con la pubblicazione, nel 1966, di Tragedy and Hope, libro di più di mille pagine in cui si ricostruisce la vicenda del potere anglo-americano tra i primi del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale. L’opera è diventata anche un oggetto di culto per collezionisti, una lettura difficile e pesante, disponibile solo in inglese, con alcune sintesi tradotte che descrivono il nocciolo della teoria di Quigley.

Cosa scopriva Quigley? Che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano e sono governati da minoranze marginalmente toccate dalle dinamiche elettorali. Il centro di questo potere erano i salotti finanziari animati dalle grandi famiglie: i Rothschild, i Morgan, i Rockefeller, i Lamont e nel Regno Unito i ricchissimi Cecil Rhodes e Alfred Milner. Il loro potere si strutturava per network: proprietà di giornali, finanziamenti delle università, creazione di fondazioni e centri di ricerca, partecipazione assidua alla vita dei partiti e finanziamento di entrambe le fazioni, costante presenza nelle alte cariche amministrative dello Stato.

Quigley elencava le caratteristiche di questo establishment. Nel Regno Unito era concentrato a Londra, nella City e nei club, mentre negli Stati Uniti viveva nelle grandi città della East Coast. Tutti i componenti di questa élite erano bianchi, in larga maggioranza protestanti (seppure non mancavano gli ebrei ed erano ammessi cattolici come i Kennedy), d’idee cosmopolite, progressiste e internazionaliste, protese alla conquista dei mercati esteri e spregiudicate da fare affari con tutti i regimi politici.

Geminello Alvi le definisce “aristocrazie venali” per evidenziare la propensione a mettere al centro delle proprie azioni il calcolo economico. Quigley ricorda come a questa élite, non interessano molto i vincitori delle elezioni, quanto essere sempre presenti nei posti di comando fondamentali. Ciò avveniva e avviene ancora, grazie ai potenti sistemi di reclutamento messi in campo: le università della cosiddetta IVY League, il CFR (Council on Foreign Relations) e i “think tank”, fondazioni di formazione politico-culturale. Queste strutture selezionano una classe politico-amministrativa che rispecchia, per linee e porzioni, il pensiero dell’establishment. Quigley passa in rassegna una quantità impressionante di biografie di piccoli e grandi potenti mostrando come tutti, abbiano trascorso almeno un periodo della loro vita dentro queste organizzazioni.

Il suo libro si caratterizza per il rigore scientifico, i dati storici elencati mettono un freno alle teorie complottistiche più fantasiose e superficiali. La sua opera si limita a mostrare i rapporti, le connessioni, i finanziamenti, le parentele tra i potenti dell’anglosfera che di fatto domina ancora, con nuovi nomi e volti ma con una origine e connessione comune.

Difficile valutare se Quigley avesse ragione o meno su tutto. Certo è che vista in retrospettiva la struttura del potere americano appare coerente con le suggestioni dello storico. Non è un caso, infatti, che la politica americana presenti delle vere e proprie dinastie: i Kennedy, i Bush, i Clinton. Adesso proprio a Washington è in corso uno scontro tra élite vecchie e nuove. Vincere le elezioni non basta, serve il controllo dei posti di comando.

Ciò non dimostra che esiste una congiura per governare il mondo e dirigere la politica mondiale, ma è evidente che Quigley sveli un aspetto importante del funzionamento e delle idee delle classi dirigenti britanniche e americane con caratteristiche comuni definite. Alcuni aspetti spiccano su tutti: i canali di selezione fuori dal circuito democratico, un orientamento a tendenza imperiale, rivolto verso l’esterno sia economicamente che culturalmente e una omogeneità di questa élite rispetto a quelle europee.

Storici famosi di stampo anglosassone come lo stesso Quigley, Arnold J. Toynbee, Samuel Huntington fino al contemporaneo Niall Ferguson ragionano in termini di civiltà ponendole al centro delle proprie ricerche, molto più degli studiosi europei contemporanei. Arnold Toynbee è noto al pubblico per gli studi sui cicli delle civiltà e per aver teorizzato che a capo di ogni ciclo si ponga una minoranza creativa, stabile con proprie regole e, soprattutto, una propria e precisa cultura. Nel 2018, il britannico Niall Ferguson ha dato alle stampe “La piazza e la torre” in cui passa in rassegna le reti del potere cavalcando le epoche storiche, muovendosi dalla massoneria settecentesca fino alla nuova aristocrazia industriale delle Big Tech. Ferguson vende milioni di copie, ma forse farebbe fatica a trovare uno spazio accademico nell’Europa continentale dove, tesi così audaci, sono poco tollerate dalla classe intellettuale.

La forza e la selezione dell’élites è una caratteristica molto forte della sfera anglosassone. D’altronde Michael Mann, noto sociologo e tra gli ultimi teorici dell’impero, considera quello americano un potere infrastrutturale capace di flettersi e snodarsi dentro e fuori l’America, con una articolazione in quattro dimensioni: militare, economico, politico e culturale. Le caratteristiche che lo storico dell’Antica Roma, Ronald Syme, individuava anche per la Repubblica Romana, guidata da una oligarchia omogenea e culturalmente compatta con progetti, tradizioni e schemi mentali delineati. Sforzarsi di comprendere bene queste dinamiche, conoscere questa storia, può fornire spunti per comprendere meglio il mondo che ci circonda, oltre il velo delle apparenze. Perché la storia la disciplina che più delle altre può fornire gli spunti per disegnare le strategie e comprendere le inclinazioni, le sensibilità e anche le pericolosità di avversari e alleati.

 

Felice Presta

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La Redazione 16 Maggio 2023 0
BlogCultura

Gli errori dell’Europa

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum del 2016 che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache.

 

Felice Presta

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La Redazione 15 Maggio 2023 0
Cultura

Aldo Manuzio, tipografo, editore e innovatore della “forma” del libro

Cinquecento anni fa a Venezia, il tipografo Aldo Manuzio rinnova fortemente la concezione del libro. Con lui è sorto il mestiere dell’editore inteso come diffusore di cultura e non più semplice stampatore, le sue innovazioni sono alla base del libro-oggetto così come lo conosciamo.
Aldo nasce nel 1450 a Bassiano, un piccolo borgo del Ducato di Sermoneta, a sudest di Roma. Studia nelle capitale papale e negli anni compresi tra il 1467 e il 1475 frequenta i circoli vicini al cardinale Bessarione, un intellettuale greco fuggito da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453).
A Bessarione si deve un dono inestimabile: il lascito alla Repubblica di Venezia dei manoscritti ellenici che costituirono il nucleo su cui sarà fondata la biblioteca Marciana, l’unica istituzione della Serenissima ancora attiva. In quel periodo Manuzio impara il greco e poi lo perfeziona a Ferrara, nel 1480 si trasferisce a Carpi a fare l’educatore presso una famiglia aristocratica. Tra il 1489 e il 1490, va a vivere a Venezia ma non sappiamo il motivo del trasferimento e nemmeno perché abbia deciso di mettersi a fare lo stampatore. Il primo libro che pubblica è la sua grammatica greca, che fa stampare presso l’officina di Andrea Torresani che diventerà suo suocero quando sposerà la figlia.

La prima officina editoriale di Manuzio è nella zona dei Frari, il suo progetto è definito: stampare i classici in latino e greco, pubblicare Dante e Petrarca nelle revisioni di Pietro Bembo e stampare libri in lingua volgare per consentire a un pubblico più di leggere senza necessariamente conoscere una lingua dotta. Il libro deve diventare un oggetto popolare e per questo decide di ridurre le dimensioni dei volumi. Prima di lui, i libri erano dei tomi grandi, pesanti, costosi e si consultavano appoggiati a un leggio per questo motivo, nel 1501 Manuzio stampa il primo tascabile. Quel formato “portatile”, costa pochi denari, se lo possono permettere studenti, artigiani, mercanti ed è semplice da trasportare. Il libro comincia a essere letto in molti luoghi prima inaccessibili, diventa svago e non più soltanto strumento di lavoro e istruzione.

 

LE INNOVAZIONI GRAFICHE
Manuzio è il primo a numerare le pagine da entrambi i lati (in precedenza una parte sola), inventa tutti quegli elementi che oggi ci sembrano scontati: frontespizio, note, indici. Importa dal greco la virgola uncinata, l’accento, l’apostrofo e il punto e virgola: prima di lui questi segni non si utilizzavano nel volgare. Soprattutto, apporta una grande innovazione per quanto riguarda i font, con la creazione del carattere corsivo per imitare una scrittura più facile da leggere e più gradevole alla vista. Un carattere compatto che occupa meno spazio e consente di risparmiare carta.
Nell’Europa latina si stampa utilizzando il tondo. Aldo Manuzio usa il Bembo un carattere elegantissimo che prende il nome dell’umanista veneziano Pietro Bembo.
Manuzio è un raffinato intellettuale e un pratico imprenditore molto attento all’uso del denaro; quando fonda l’accademia Aldina, dove si parla in greco antico, crea un cenacolo intellettuale ma allo stesso tempo, lì può reclutare compositori e correttori di bozze in greco a basso costo. L’incisore dei caratteri corsivi è un abile orafo bolognese, Francesco Griffo che purtroppo anni dopo, finirà in carcere per omicidio.

 

UN LIBRO MERAVIGLIOSO
“Il libro più glorioso del Rinascimento, ampiamente illustrato e meravigliosamente ornato, che fino ai giorni nostri resta misterioso, un testo irto di simboli che utilizza un gergo bizzarro di varie lingue e dialetti”.
Queste parole di Helen Barolini, studiosa americana di bibliografia, si riferiscono al libro più bello, famoso e forse più costoso dell’epoca, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, intitolato Hypenorotomachia poliphili, noto anche come Polìfilo, (amoroso combattimento onirico di Polifilo). Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico.
Il libro è illustrato con 172 splendide xilografie, realizzate da un artista ignoto che mostrano le scene, gli elementi architettonici e i personaggi che Polìfilo incontra nei suoi sogni. Le illustrazioni sono forse la parte migliore del libro, con uno stile grafico in perfetta armonia con il carattere tipografico utilizzato.
Lo psicoanalista Carl Gustav Jung ammirava il libro, ritenendo che le immagini oniriche preannunciassero la sua teoria degli archetipi. Il testo è stato scritto trent’anni prima, in un misto di italiano, veneziano, ebraico e arabo, da un frate domenicano trevigiano di nome Francesco Colonna. Non tutti gli studiosi concordano sull’identificazione, altri ritengono che vada associato all’omonimo principe romano che visse a Venezia in quel periodo.
Il Polìfilo vale nella storia dell’editoria, come la Cappella Sistina conta nella storia della pittura. Nei vent’anni di attività come editore, Aldo Manuzio ha pubblicato centrotrenta edizioni in greco, latino e volgare. Dopo la morte, nel febbraio 1515 la sua produzione contraddistinta dal marchio di un delfino avvolto intorno al fuso di un’ancora, venne continuata dagli eredi fino alla fine del secolo.

 

Felice Presta

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La Redazione 12 Maggio 2023 0
Cultura

Wilfred Thesiger, l’aristocratico avventuriero

Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.

In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.

Il terreno dove si fermarono per la notte era accidentato, Eric e il suo compagno tirarono fuori i materassi da campo. “Dio mio, che coppia di checche…”, fu il commento sarcastico di Thesiger mentre si sdraiava sulle rocce.

Figlio di diplomatici, primo inglese a nascere in Etiopia, dove il padre era ministro plenipotenziario, aveva passato la sua infanzia in un mondo dal “barbarico splendore”. Ignorava il cricket e il football, ma sapeva tutto di caccia, non si occupava delle questioni politiche, ma aveva visto la sanguinosa lotta per la successione al trono di Menelik, con i vinti trascinati in catene, il suono assordante dei tamburi, l’armata vittoriosa di Ras Tafari con le insegne e il bottino di guerra. In questa enclave cristiana in mezzo alle terre islamiche, Thesiger dopo essere ritornato in patria, si dovette adattare a un ambiente fatto di regole di comportamento, riti sociali, gerarchie dove nulla di ciò che gli piaceva era di moda, un piccolo mondo di compunti funzionari che vedevano in lui solo il lato disdicevole di non appartenenza allo stesso clan sociale. Il giovane Thesiger, troverà nei pugni, nell’isolamento e della letteratura epica una strategia di sopravvivenza. Fu rispettato e accettato, ma non compreso. Eppure tutti i condizionamenti esterni e il clima familiare non bastano a spiegare la formazione di un carattere.

 

La vita di Thesiger obbedisce a degli impulsi interiori che sfuggono alle spiegazioni logiche: figlio a pieno titolo dell’élite britannica, ma straniero in patria. Affascinato dalle tradizioni, dalle consuetudini, dalla magnificenza del passato, spesso portato a identificarsi più con quelle degli altri popoli che con le sue; l’inglesità come marchio d’origine, subita ma non troppo amata, mai rinnegata, la passione per i grandi spazi e le grandi solitudini, l’idea che le civiltà tradizionali siano più vere, più vicine ai bisogni e ai sentimenti primari e fondamentali dell’uomo.

Un turbine di contraddizioni, da cui uscirà scegliendo l’unica forma di devianza possibile: viaggiare. Si scopre un elegante fuorilegge, senza pulsioni banditesche. È antisociale, segue il proprio istinto, non pensa ai destini collettivi, non ha la coscienza di classe, scegli chi è simile a lui indipendentemente da come nasce; non riconosce i criteri che regolano professioni, successo, carriera e guadagni, non sono alla base delle sue scelte.

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La Redazione 9 Maggio 2023 0
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