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Cultura
Home Archivia per categoria "Cultura"

Category: Cultura

BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne? Va benissimo, ma perché aumentano?

Riprendere a scrivere dopo tanto tempo non è facile ma l’argomento non solo è di attualità ma è, per me, importantissimo: quello sulla violenza sulle donne.

Lo scorso 25 novembre c’è stata la giornata dedicata…belle le foto sui social, gli speciali sui tg e sui giornali. Tutto bello ma a che cosa serve?

Mi spiego.

La sensibilizzazione va benissimo ma deve essere seguita da fatti concreti.

I dati sulle denunce non diminuiscono, ma anzi aumentano.

Cosi come gli omicidi, le minacce, le violenze e cosi via.

Perché?

Dopo aver attentamente e giornalisticamente studiato il fenomeno (eh già mi hanno insegnato a studiare prima di affermare determinate cose), anche dalla parte normativa -cioè partendo dalle denunce fino ad arrivare ai tribunali- posso tranquillamente affermare senza tema di smentita che, codice rosso o meno, dalla denuncia della potenziale vittima alla lettura del fascicolo da parte del magistrato -e qui parlo solo di lettura, non di atti coercitivi- passano dai quattro ai sei mesi.

Solo in caso di flagranza di reato, difficili in molti dei casi come quelli citati prima, si può e si fa qualcosa in più.

Sennò si va avanti con una, due, cinque, dieci denunce nel frattempo che il magistrato incaricato valuti l’ormai enorme fascicolo e decida poi qualcosa al riguardo.

Non va bene, non va per nulla bene.

Se ci fate caso il più delle volte, nei femminicidi, le vittime avevano fatto più denunce. Avevano allertato più volte le forze di Polizia…ma il tempo trascorso aveva poi permesso all’assassino di mettere in pratica i propositi maturati nel tempo.

Le forze dell’ordine non hanno colpe visto il vincolo che li lega alle decisioni di un giudice.

E neanche i consigli che danno (allontanatevi, non rispondete, non reagite e cosi via) possono essere d’aiuto in molti dei casi.

Torniamo ai magistrati? Anche loro non hanno colpa visto le tante pratiche che si accumulano sulle loro scrivanie e non possono essere smaltite in breve tempo.

Si è fatto tanto per la sensibilizzazione, come ho detto, si è attivato un numero verde il 1522, alcune procure hanno attivato sportelli appositi, la normativa al riguardo è stata aggiornata anche con l’aggiunta nel codice penale del femminicidio. Rimane il blackout dalle denunce al fare qualcosa al riguardo (ad esempio obbligo di non avvicinarsi alla persona).

Passa troppo tempo e questo tempo, molte volte, è fatale per le donne che devono subire.

 

Felice Presta

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La Redazione 30 Novembre 2024 0
BeneventoBlogCronacheCulturaDocumentiInchieste

Inchiesta conoscitiva su attacchi di panico e altro negli ultimi tempi

Compito di un giornalista d’inchiesta è tenere sempre gli occhi e le orecchie bene aperte ed osservare ciò che succede intorno a lui e, quando si verifichino anomalie, cercare di dare delle risposte a queste.

Non sono un medico quindi cercherò di spiegare delle cose dal punto di vista del…paziente.

Negli ultimi tempi, diciamo nell’arco di un anno, con accelerazioni negli ultimi 6 mesi, c’è stato un incremento dei cosi detti STATI D’ANSIA E DI PANICO.

In che cosa consistono? Il corpo, sia pure respirando profondamente, sembra che non riceva abbastanza aria nei polmoni e quindi, il più delle volte, si è costretti a iperventilare per tornare alla normalità.

Non sempre ci si riesce e, appunto, si va nel panico.

In alcuni casi questi attacchi portano anche ad aritmie cardiache di media importanza.

Se siano connessi i due stati non lo so, per questo scrivo l’articolo, per fare in modo, con i vostri commenti, di avere un’idea più chiara di ciò che sta succedendo.

Potrei pensare che la presupposta mancanza di ossigeno, o la sensazione se cosi la vogliamo chiamare, porti poi ad un’accelerazione dei battiti del cuore e quindi all’aritmia. Questo lo dovrebbero poi spiegare i medici.

Questi sintomi, che ho avuto modo di constatare in prima persona, e poi con altre due persone vicine, vengono su uomini che hanno superato, o sono prossimi, alla cinquantina. Di donne non ne ho avuto notizie.

Questa anomalia è solo l’unica di tante altre verificatesi in un arco di tempo più ampio, diciamo due o tre anni e che vado ad elencare in ordine di casi.

  • Mal di schiena. Ma non quello normale bensì un dolore costante e persistente che può durare dai due ai sei mesi nella parte centrale alla fine della colonna vertebrale in prossimità del coccige. Una volta che il dolore è passato rimane, toccandosi, comunque quello sottocutaneo, come se si fosse preso una botta, e limita nei movimenti il corpo di chi lo ha subito.
  • Spossatezza, chiamiamola voglia di non fare nulla. Non si desidera uscire, stare con la gente, passeggiare eccetera. Io l’ho definita sindrome lockdown. Ma non è comunque uno stato mentale bensì fisico. E come se il fisico dicesse al corpo STAI A CASA. E quando non ci sei magari provoca un senso di insofferenza e indifferenza per il mondo fuori di essa.
  • Naso chiuso in modo perenne e anomalo. E qui entro in ballo ancora io. Pur avendo la deviazione del setto nasale che mi fa respirare male -per cui ogni anno consumo nel periodo invernale almeno una boccetta di decongestionante- quest’anno, da novembre ad oggi, ne ho consumati…cinque. Tra l’altro ho notato che il naso chiuso contribuisce alla sensazione della mancanza d’aria e della difficoltà a respirare.
  • Mal di testa continui e sinusiti
  • Sindromi influenzali che permango anche dieci, dodici giorni dopo che è passato lo stato febbrile. Magari con una ricaduta nel periodo immediatamente successivo.

Ci sono altri sintomi, che qui non elenco, perché trovati in giro in maniera minore.

Naturalmente non sto presupponendo che ciò sia dovuto al COVID o ai vaccini. Lo scrivo giusto per evitare eventuali diatribe tra chi si è vaccinato e chi no.

Fin qui quello che ho visto e trovato in giro. Prima di chiedere lumi magari a un dottore o a un esperto vorrei a questo punto il vostro parere e vedere se la cosa, in alcuni casi, è più generalizzata a differenza di altri.

Potete quindi commentare su questo articolo, telefonare al 338-2415614, oppure mandarci un’email a sannioreport@gmail.com .

Tutte le informazioni raccolte verranno catalogate per farne un elenco, dopodiché chiederò parere su queste anomalie fisiche che molte persone stanno avendo negli ultimi tempi.

Vi ringrazio fin d’ora per la collaborazione.

Felice Presta

 

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La Redazione 18 Gennaio 2024 0
BeneventoBlogCulturaDocumenti

Salutiamo i reperti di piazza Cardinal di Pacca (piazza Santamaria)

Come ho più volte scritto parlare di Cultura in questa città (dove per cultura si intende anche e soprattutto la valorizzazione del nostro patrimonio storico-archeologico) sta diventando ogni giorno sempre più difficile. Per l’ignavia di cittadini e amministrazioni, certamente, ma anche per il fatto che quei pochi “CHE FANNO” non riescono a mettersi d’accordo unitariamente per presentare progetti e quant’altro in modo da costringere chi di dovere ad ascoltare. Poi c’è l’onda lunga del “momento” come quella di piazza Cardinal di Pacca, cioè una micro sollevazione-indignazione popolare che porta la politica e la sovrintendenza a cambiare i Progetti (sbagliati) iniziali. Molto lo si deve all’opposizione al Comune di Benevento con i consiglieri come Moretti e Perifano che, carte alla mano, hanno costretto al cambio.

Martedì 27 giugno ci sarà una manifestazione a questo proposito, e precedentemente anche una raccolta di firme, che secondo il sottoscritto lasciano il tempo che trovano. Anche perché la decisione già è presa: si ricopre tutto. Perché? Perché l’amministrazione non ha interesse a recuperare l’area, la sovrintendenza si nasconde dietro “non teniamo soldi” e quindi rimane ciò che è stato deciso.

Si farà un infopoint light, il prossimo anno torneranno le giostre e tutto finirà nel dimenticatoio.

Come dite? Perché ne sono cosi sicuro? Perché sono esperienze già vissute in precedenza, con i Sabariani, con Torre Biffa, con Cellarulo, i resti del mercato romano del Malies e cosi via…

La storia degli ultimi trent’anni è costellata di episodi del genere e non si è mai trovata la via per un recupero o per una valorizzazione adeguata di ciò che abbiamo, di ciò che sappiamo di avere e di ciò che troveremo spostando 10cm di asfalto. Un discorso settoriale in questo senso, sulla spinta emozionale del momento, non serve a nulla tantomeno a ciò che c’è sotto piazza Cardinal di Pacca. L’ho detto e lo ripeto: è meglio che vengano risotterrati i reperti trovati perché altre soluzioni economiche non ce ne sono. Una sola ipotesi è possibile nel caso si voglia realmente attuare un progetto di valorizzazione dei reperti sulla piazza. Creare una struttura fissa che protegga dalle intemperie e non lastre di plastica che, dopo un paio di anni complice l’umidità della città, non faccia più vedere ciò che si cela li sotto.

Dal discorso sembro sfiduciato? Certamente, e state parlando con chi ha messo in piedi l’operazione Santi Quaranta, ripulito e fatto diventare di proprietà comunale il campanile di Santa Sofia e ripulito i resti dell’anfiteatro gratuitamente (adesso daranno a una ditta 25 mila euro circa per fare la stessa cosa). Ci vuole programmazione economica, una visione di città che da 40 anni non c’è mai stata, ci vuole impegno, fatica e sudore. Ma è meglio tagliare nastri e accedere al successivo buffet piuttosto che fare una cosa del genere. Ci si stanca di meno.

Felice Presta

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La Redazione 22 Giugno 2023 0
Cultura

Il Surrealismo come movimento e avanguardia artistica

 

I fuochi della prima guerra mondiale si sono spenti da poco e a Parigi vivono la maggior parte degli animatori dell’arte più eversiva. Francis Picabia, Tristan Tzara, Max Ernst, Marcel Duchamp, Man Ray. È a loro che guardano con ammirazione due giovani intraprendenti, Andrè Breton e Philippe Soupault.

Siamo in pieno sviluppo di quella vita metropolitana, caratterizzata da una moltiplicazione esponenziale degli stimoli sull’individuo, ben compresa e descritta da Simmel, anni prima.

Il mondo dell’arte non resta immune. La fondazione della rivista Littérature, con il contributo decisivo di Louis Aragon, diventa il laboratorio attraverso il quale maturano le esperienze che porteranno al Surrealismo. All’inizio l’obiettivo è ancora quello di un’arte “totale” ovvero di un atteggiamento comune a tutte le discipline, dal teatro alla pittura, in grado di sminuire le singole tecniche e i relativi linguaggi in favore di una creatività legata all’umore dell’individuo che sceglie di volta in volta lo strumento per esprimersi.

La parola deriva da sur-réalisme, contenuta nel programma di sala di Parade, spettacolo di Guillaume Apollinaire, andato in scena il 17 maggio 1917 al teatro dello Chatelet.

Littérature promuove e organizza delle serate sull’esempio di quelle futuriste e del Cabaret Voltaire di Zurigo che diede origine al movimento Dada. Da lì parte tutto. Breton è prima una “dadaista” ma poi si distacca progressivamente perché vuole strutturare il movimento e i dadaisti rifiutano per principio questa idea. L’incontro e poi lo scontro con Tristan Tzara è decisivo per Breton. I due, insieme a Marinetti sono l’esempio tipico dell’uomo dell’avanguadia artistica: sradicato, deviante, ironicamente critico verso il sistema di valori della società.

Tra il 1920 e il 1925 succede di tutto: serate folli a teatro, conferenze, manifestazioni di disturbo all’interno di occasioni ufficiali (far notizia e balzare agli onori della cronaca è una strategia ispirata al Futurismo italiano), congressi programmatici, volantini e interventi provocatori su riviste, al limite dell’arroganza.

Di Dada, il nascente Surrealismo prosegue l’idea di voler essere un modo di vivere a agire radicale più che un orientamento creativo in senso stretto: di Dada rifiuta, come emerge dalla rottura tra Tzara e Breton che avviene nel 1922 tra roventi polemiche, il sottofondo troppo nichilista vagamente apocalittico.

Breton è affascinato dagli eventi della rivoluzione sovietica e scorge nell’arte un altro modo di intervenire nelle realtà sociale. Almeno fino al 1925, si trasforma nel custode di un rigorismo rivoluzionario e di una proclamata ortodossia surrealista che lo porterà a decretare molte scomuniche verso De Chirico, Artaud, Aragon e persino a Soupaul.

L’interesse preminente delle ricerche del primo Surrealismo è verso i linguaggi intesi come meccanismi in cui il senso, anziché essere manifestato, viene mistificato. Si riscoprono in questo ambito alcuni versi di Rimbaud, Ducasse e Roussel, in cui la chiarezza della forma lascia il posto al suono oscuro, al significato ambiguo delle parole, alla dissoluzione della struttura del discorso.

Si affrontano temi come la psicoanalisi, l’esoterismo, l’ipnosi, il sonno, tutte quelle situazioni di “sospensione della razionalità”, in cui si ritiene che l’individuo esprima la singolarità più autentica senza il filtro della consuetudine. Ancora, su un piano più legato alle modalità e alle tecniche del linguaggio, molta importanza si attribuisce al calembour, al paradosso verbale, allo humor.

Si legge nel “Manifesto del Surrealismo” redatto da Breton nel 1924: “Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere il funzionamento reale del pensiero, è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, di là da ogni preoccupazione estetica e morale”.

La scrittura automatica viene descritta da Breton e Eluard nel Dictionnaire abrégé du surréalisme: “Gioco consistente nel far comporre una frase, o un disegno, da più persone senza che alcuna di esse possa tener conto della e delle collaborazioni precedenti (…)”

L’esempio classico di questa tecnica è il “cadavre exquis”, che da nome al gioco: “il cadavere squisito berrà il vino nuovo”. Sullo stesso livello, l’esperienza di Robert Desnos che nel 1922 compone una serie di aforismi e giochi verbali in condizione di sonno ipnotico.

Per quanto concerne le ricerche sull’arte in generale, la svolta avviene alla fine del 1924, con l’uscita del primo numero della rivista La Révolution Surréaliste e la creazione del Bureau central de recherches surréalistes, aperto l’undici ottobre 1924 al 15 rue de Grenelle, una specie di centrale ideologica del movimento. La rivista ha tra i suoi esponenti principali: éluard, Crevel, Artaud, Duchamp, Masson, Ernst e altri.

L’anno successivo Breton captando le mutazioni avvenute nella ricerca artistica, inizia a teorizzare il surrealismo nella pittura che prende forma in una mostra alla galleria “Pierre” con de Chirico, Klee, Ernst, Arp, Mirò, Picasso, Man Ray e Pierre Roy. In verità Breton si limita a registrare una tendenza artistica che si stava delineando in modo autonomo e cerca anche in questo caso di definire una serie di regole da osservare, ma il confine è sottile, come si può imbrigliare in un’ideologia una pittura legata a stati alterati della psiche, alla sospensione del razionale?

Da un lato come guardiano della “fede”, Breton può bollare come segno di compromissione mondana le scenografie di Ernst e Mirò per i Balletti Russi. Per altro verso, comincia un attività di proselitismo attraverso nomi come Mesens, Magritte, Dalì, Tanguy, Delvaux, per ottenere quel successo e quella diffusione del Surrealismo, com’era stato per il Futurismo negli anni precedenti. Il duro lavoro porta a risultati concreti: nel 1926 apre i battenti la Galerie Surréaliste, luogo di mostre e manifestazioni. Da quel momento il Surrealismo è una realtà riconosciuta e rispettata nel mondo dell’arte.

Sogno, zone oscure della coscienza, automatismo psichico, allucinazione, confusione di segni e parole. Tutti elementi che ritroviamo nelle opere surrealiste, soprattutto nelle arti visive dove una serie di deroghe alle regole classiche, trovano una pedissequa applicazione con eccessi al limite del kitsch.

È il caso di due surrealisti della prima ora, Ernst e Mirò. Il primo, già esponente del Dada tedesco, è artefice di collages con inserti oggettuali ed esperto del frottage, una tecnica di disegno e pittura, basata sullo sfregamento e già nota nell’antica Grecia. L’immaginario di Ernst è composto da visionarietà nordica, incline al mostruoso e all’angoscioso con riferimenti all’esoterismo rinascimentale. Mirò invece, utilizza una tecnica stilistica omogenea e classica, ma dipinge forme e segni riferiti a elementi primitivi, ricchi di colori per ottenere un effetto cromatico potente.

Proviene dal Dada anche Man Ray, che in questi anni prosegue la pratica dei “raygraphs”, basati sulla tecnica della stampa a contatto, con l’uso sapiente del fotomontaggio e delle solarizzazioni. Il tutto per dimostrare come la tecnica fotografica non si riduca alla semplice riproduzione di immagini catturate nella realtà visibile, ma possiede infinite possibilità. In quel periodo, Ray è attivo in una serie di sperimentazioni cinematografiche: nel 1923 realizza Retour à la raison, l’anno successivo partecipa con Duchamp, Picabia e Satie a Entr’acte di Renè Clair, nel 1926 sempre con Duchamp e Marc Allégret fa Anémic cinéma e poi realizza un’altra pellicola Emak Bakia. Nel 1929, lo stesso anno del Chien andalou, di Bunuel e Dalì, gira Les Mystéres du château de dé.

Tali sperimentazioni hanno tutte un solo filo conduttore: nulla vogliono né significare, né esprimere, rendendo omaggio al caso, all’assurdo, agli inciampi della ragione e del linguaggio. Caso a parte è quello di Salvador Dalì. Inviso agli altri esponenti del movimento per il suo esibizionismo e per la spasmodica ricerca di notorietà, egli è il teorico della “paranoia critica”, che definisce «metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critica di fenomeni deliranti». Infatti tutte le immagini e le figure, sono forme che si agitano nell’inconscio dell’artista catalano che riproduce sulla tela ciò che l’irrazionale fa apparire e che Dalì chiama “paranoia”. Così si spiega il contesto onirico in cui si combinano figure simboliche e allusive.

Alla fine del decennio, l’irrequieto gruppo surrealista si sfalda definitivamente. La scelta di Breton di passare a una politicizzazione del movimento, che lo porterà a chiudere La Révolution Surréaliste e a pubblicare, tra il 1930 e il 1933, Le Surréalisme au service de la Révolution, allontana autori come Bataille, Limbour, Masson, Vitrac, più interessati a temi come l’antropologia e il sacro che affrontano nella rivista Documents. Nel 1933, poi, la rivista Minotaure, fondata dal Albert Skira, aggregherà il gruppo stretta-mente artistico: Tanguy, Dalì, Duchamp, Mirò, Arp, de Chirico, Bellner. Nel gennaio 1938 si tiene alla Galerie des Beaux-Arts di Georges Wildenstein, a Parigi, l’Exposition Internationale du Surréalisme, celebrazione del movimento proprio nella fase della sua crisi definitiva.

a cura di Felice Presta e Vincenzo Bovino

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La Redazione 11 Giugno 2023 0
CulturaSenza categoria

Carroll Quigley e la dimensione oligarchica della storia

La letteratura sulle cospirazioni è ricca, non conosce crisi. Ultimamente, diversi autori, per lo più americani, sono diventati milionari grazie a ricostruzioni e descrizioni del nuovo ordine mondiale. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: un manipolo di uomini controlla tutto all’interno di organizzazioni riservate. Ma è proprio tutto così semplice? Il problema di questi libri è una notevole superficialità nel trattare l’argomento, così come una eccessiva semplificazione che non aiuta a comprendere l’effettiva trama del potere, le sue articolazioni su più livelli e la dialettica all’interno degli stessi apparati. La questione è molto più complicata, non si può ridurre con qualche nome e sigla da offrire come grande cospiratore, altrimenti finiamo nel romanzo popolare. Meglio leggersi “La storia dei tredici” di Honoré de Balzac.

C’è stato un periodo in cui l’analisi del Potere internazionale e delle sue articolazioni era una questione più seria. Pochi conoscono il Professor Carroll Quigley, controverso storico, che insegnò ad Harvard, Princeton e Georgetown tra gli anni quaranta e settanta del Novecento. Egli era convinto che l’establishment nel mondo anglo-americano fosse un argomento tabù su cui gli studiosi di alto rango non si fossero mai davvero cimentati. Lo stesso Quigley si considerava un membro delle alte sfere e si dichiarava espressamente d’accordo con le idee guida di questa classe dirigente, anche se non condivideva l’eccessiva riservatezza della rete di potere.

Così Quigley, con una ricerca durata molti anni, ricostruisce famiglie, connessioni e modus operandi di questi gruppi con la pubblicazione, nel 1966, di Tragedy and Hope, libro di più di mille pagine in cui si ricostruisce la vicenda del potere anglo-americano tra i primi del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale. L’opera è diventata anche un oggetto di culto per collezionisti, una lettura difficile e pesante, disponibile solo in inglese, con alcune sintesi tradotte che descrivono il nocciolo della teoria di Quigley.

Cosa scopriva Quigley? Che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano e sono governati da minoranze marginalmente toccate dalle dinamiche elettorali. Il centro di questo potere erano i salotti finanziari animati dalle grandi famiglie: i Rothschild, i Morgan, i Rockefeller, i Lamont e nel Regno Unito i ricchissimi Cecil Rhodes e Alfred Milner. Il loro potere si strutturava per network: proprietà di giornali, finanziamenti delle università, creazione di fondazioni e centri di ricerca, partecipazione assidua alla vita dei partiti e finanziamento di entrambe le fazioni, costante presenza nelle alte cariche amministrative dello Stato.

Quigley elencava le caratteristiche di questo establishment. Nel Regno Unito era concentrato a Londra, nella City e nei club, mentre negli Stati Uniti viveva nelle grandi città della East Coast. Tutti i componenti di questa élite erano bianchi, in larga maggioranza protestanti (seppure non mancavano gli ebrei ed erano ammessi cattolici come i Kennedy), d’idee cosmopolite, progressiste e internazionaliste, protese alla conquista dei mercati esteri e spregiudicate da fare affari con tutti i regimi politici.

Geminello Alvi le definisce “aristocrazie venali” per evidenziare la propensione a mettere al centro delle proprie azioni il calcolo economico. Quigley ricorda come a questa élite, non interessano molto i vincitori delle elezioni, quanto essere sempre presenti nei posti di comando fondamentali. Ciò avveniva e avviene ancora, grazie ai potenti sistemi di reclutamento messi in campo: le università della cosiddetta IVY League, il CFR (Council on Foreign Relations) e i “think tank”, fondazioni di formazione politico-culturale. Queste strutture selezionano una classe politico-amministrativa che rispecchia, per linee e porzioni, il pensiero dell’establishment. Quigley passa in rassegna una quantità impressionante di biografie di piccoli e grandi potenti mostrando come tutti, abbiano trascorso almeno un periodo della loro vita dentro queste organizzazioni.

Il suo libro si caratterizza per il rigore scientifico, i dati storici elencati mettono un freno alle teorie complottistiche più fantasiose e superficiali. La sua opera si limita a mostrare i rapporti, le connessioni, i finanziamenti, le parentele tra i potenti dell’anglosfera che di fatto domina ancora, con nuovi nomi e volti ma con una origine e connessione comune.

Difficile valutare se Quigley avesse ragione o meno su tutto. Certo è che vista in retrospettiva la struttura del potere americano appare coerente con le suggestioni dello storico. Non è un caso, infatti, che la politica americana presenti delle vere e proprie dinastie: i Kennedy, i Bush, i Clinton. Adesso proprio a Washington è in corso uno scontro tra élite vecchie e nuove. Vincere le elezioni non basta, serve il controllo dei posti di comando.

Ciò non dimostra che esiste una congiura per governare il mondo e dirigere la politica mondiale, ma è evidente che Quigley sveli un aspetto importante del funzionamento e delle idee delle classi dirigenti britanniche e americane con caratteristiche comuni definite. Alcuni aspetti spiccano su tutti: i canali di selezione fuori dal circuito democratico, un orientamento a tendenza imperiale, rivolto verso l’esterno sia economicamente che culturalmente e una omogeneità di questa élite rispetto a quelle europee.

Storici famosi di stampo anglosassone come lo stesso Quigley, Arnold J. Toynbee, Samuel Huntington fino al contemporaneo Niall Ferguson ragionano in termini di civiltà ponendole al centro delle proprie ricerche, molto più degli studiosi europei contemporanei. Arnold Toynbee è noto al pubblico per gli studi sui cicli delle civiltà e per aver teorizzato che a capo di ogni ciclo si ponga una minoranza creativa, stabile con proprie regole e, soprattutto, una propria e precisa cultura. Nel 2018, il britannico Niall Ferguson ha dato alle stampe “La piazza e la torre” in cui passa in rassegna le reti del potere cavalcando le epoche storiche, muovendosi dalla massoneria settecentesca fino alla nuova aristocrazia industriale delle Big Tech. Ferguson vende milioni di copie, ma forse farebbe fatica a trovare uno spazio accademico nell’Europa continentale dove, tesi così audaci, sono poco tollerate dalla classe intellettuale.

La forza e la selezione dell’élites è una caratteristica molto forte della sfera anglosassone. D’altronde Michael Mann, noto sociologo e tra gli ultimi teorici dell’impero, considera quello americano un potere infrastrutturale capace di flettersi e snodarsi dentro e fuori l’America, con una articolazione in quattro dimensioni: militare, economico, politico e culturale. Le caratteristiche che lo storico dell’Antica Roma, Ronald Syme, individuava anche per la Repubblica Romana, guidata da una oligarchia omogenea e culturalmente compatta con progetti, tradizioni e schemi mentali delineati. Sforzarsi di comprendere bene queste dinamiche, conoscere questa storia, può fornire spunti per comprendere meglio il mondo che ci circonda, oltre il velo delle apparenze. Perché la storia la disciplina che più delle altre può fornire gli spunti per disegnare le strategie e comprendere le inclinazioni, le sensibilità e anche le pericolosità di avversari e alleati.

 

Felice Presta

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La Redazione 16 Maggio 2023 0
BlogCultura

Gli errori dell’Europa

Esistono tre nozioni di Europa spesso sovrapposte o confuse ma che è opportuno tenere distinte. Anzitutto c’è lo spazio continentale in senso fisico: l’Europa come concetto geografico, ma anche etnico-storico e socio culturale. Qui dentro c’è un gruppo di paesi che fa parte dell’Unione Europea, un club che condivide una serie di regole e valori, i cui membri hanno ceduto parte della loro sovranità, per consentire al sistema di reggere. A sua volta, una parte di queste nazioni, viene identificata con il termine “eurozona” per designare quelle che condividono la stessa moneta cedendo una quota ancora maggiore di sovranità, con regole stringenti in materia di bilancio.
L’esistenza di queste tre nozioni provoca delle frattura che segnano dei conflitti politici. Ultimo, in ordine temporale, il referendum del 2016 che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, si è combattuto sulla faglia tra Eurozona/UE: la maggiore integrazione della prima, spinge un paese geloso di certe prerogative sovrane ad abbandonare il club. A sua volta questo crea pulsioni indipendentiste in quelle porzioni di territorio britannico, come la Scozia, che vogliono restare nel sistema comunitario in funzione anti-inglese.
Altri conflitti scuotono il vecchio continente come quello in Ucraina sul confine tra sfere d’influenza europea e russa. Altre pressioni arrivano dal Nordafrica e sul confine sud est con il flusso incontrollato di migranti. Di fronte a questi enormi problemi, l’Unione Europea ha la tendenza innata a fare cattivi compromessi, dettati soprattutto dal sentimentalismo, i suoi processi politici tendono a evitare forti discontinuità e solo un voto popolare poteva fare pressione in tal senso.

“I guai del mondo sono sempre una questione di grammatica”. Nella sentenza del filosofo aquitano Michel de Montaigne, si può comprendere il fallimento dell’Unione Europea. Allo stesso tempo astorico e utilitaristico, il progetto continentale manca dei connotati geopolitici per sopravvivere alla congiuntura attuale. Né impero né nazione: contravviene alla più elementare prassi di governo. Una sottile incongruenza che i tanto celebrati “padri fondatori” considerarono un trascurabile difetto ortografico. Credevano che la burocrazia potesse sostituirsi alla capacità strategica di uno stato egemone e l’interesse economico potesse sostituire l’assenza di una coscienza etnico-nazionale. S’illudevano di poter fermare lo scorrere del tempo e sottrarsi all’inevitabile sviluppo dialettico.

“Non ci sarà pace in Europa se gli stati saranno ricostituiti sulla base della sovranità nazionale”, scrisse nelle sue memorie Jean Monnet. “Non stiamo formando una coalizione di stati, stiamo unendo persone”. Il nobile proposito, cela una sottile sfrontatezza perché Monnet ha fatto di tutto per diluire il conflitto politico, disegnando una struttura istituzionale dove al centro ci sono dei rigidi meccanismi economici, supportati da astratte teorie funzionaliste. 
Il risultato finale è un agglomerato mercantile, dove non è possibile mettere in discussione niente, se non apportare pallide modifiche a un sistema dove la guerra si è inevitabilmente spostata in campo economico. Laddove si spengono le passioni e si omologa il pensiero politico, tutto diluisce nella grigia pratica amministrativa, che affronta i problemi complessi con il piglio del ragioniere. È a questa mentalità che dobbiamo il lessico tipico di Bruxelles, fatto di decisioni irreversibili presentate come dogmi indiscutibili. Non disturbate i visionari, la “generazione Erasmus” sa cosa fare e un’Europa differente non esiste. 
In verità più sottovalutiamo il valore della sovranità, più ci sfugge di mano. Dalla post-sovranità, siamo passati all’iper-sovranità dei mercati e di burocrazie opache.

 

Felice Presta

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La Redazione 15 Maggio 2023 0
Cultura

Aldo Manuzio, tipografo, editore e innovatore della “forma” del libro

Cinquecento anni fa a Venezia, il tipografo Aldo Manuzio rinnova fortemente la concezione del libro. Con lui è sorto il mestiere dell’editore inteso come diffusore di cultura e non più semplice stampatore, le sue innovazioni sono alla base del libro-oggetto così come lo conosciamo.
Aldo nasce nel 1450 a Bassiano, un piccolo borgo del Ducato di Sermoneta, a sudest di Roma. Studia nelle capitale papale e negli anni compresi tra il 1467 e il 1475 frequenta i circoli vicini al cardinale Bessarione, un intellettuale greco fuggito da Costantinopoli dopo la conquista turca (1453).
A Bessarione si deve un dono inestimabile: il lascito alla Repubblica di Venezia dei manoscritti ellenici che costituirono il nucleo su cui sarà fondata la biblioteca Marciana, l’unica istituzione della Serenissima ancora attiva. In quel periodo Manuzio impara il greco e poi lo perfeziona a Ferrara, nel 1480 si trasferisce a Carpi a fare l’educatore presso una famiglia aristocratica. Tra il 1489 e il 1490, va a vivere a Venezia ma non sappiamo il motivo del trasferimento e nemmeno perché abbia deciso di mettersi a fare lo stampatore. Il primo libro che pubblica è la sua grammatica greca, che fa stampare presso l’officina di Andrea Torresani che diventerà suo suocero quando sposerà la figlia.

La prima officina editoriale di Manuzio è nella zona dei Frari, il suo progetto è definito: stampare i classici in latino e greco, pubblicare Dante e Petrarca nelle revisioni di Pietro Bembo e stampare libri in lingua volgare per consentire a un pubblico più di leggere senza necessariamente conoscere una lingua dotta. Il libro deve diventare un oggetto popolare e per questo decide di ridurre le dimensioni dei volumi. Prima di lui, i libri erano dei tomi grandi, pesanti, costosi e si consultavano appoggiati a un leggio per questo motivo, nel 1501 Manuzio stampa il primo tascabile. Quel formato “portatile”, costa pochi denari, se lo possono permettere studenti, artigiani, mercanti ed è semplice da trasportare. Il libro comincia a essere letto in molti luoghi prima inaccessibili, diventa svago e non più soltanto strumento di lavoro e istruzione.

 

LE INNOVAZIONI GRAFICHE
Manuzio è il primo a numerare le pagine da entrambi i lati (in precedenza una parte sola), inventa tutti quegli elementi che oggi ci sembrano scontati: frontespizio, note, indici. Importa dal greco la virgola uncinata, l’accento, l’apostrofo e il punto e virgola: prima di lui questi segni non si utilizzavano nel volgare. Soprattutto, apporta una grande innovazione per quanto riguarda i font, con la creazione del carattere corsivo per imitare una scrittura più facile da leggere e più gradevole alla vista. Un carattere compatto che occupa meno spazio e consente di risparmiare carta.
Nell’Europa latina si stampa utilizzando il tondo. Aldo Manuzio usa il Bembo un carattere elegantissimo che prende il nome dell’umanista veneziano Pietro Bembo.
Manuzio è un raffinato intellettuale e un pratico imprenditore molto attento all’uso del denaro; quando fonda l’accademia Aldina, dove si parla in greco antico, crea un cenacolo intellettuale ma allo stesso tempo, lì può reclutare compositori e correttori di bozze in greco a basso costo. L’incisore dei caratteri corsivi è un abile orafo bolognese, Francesco Griffo che purtroppo anni dopo, finirà in carcere per omicidio.

 

UN LIBRO MERAVIGLIOSO
“Il libro più glorioso del Rinascimento, ampiamente illustrato e meravigliosamente ornato, che fino ai giorni nostri resta misterioso, un testo irto di simboli che utilizza un gergo bizzarro di varie lingue e dialetti”.
Queste parole di Helen Barolini, studiosa americana di bibliografia, si riferiscono al libro più bello, famoso e forse più costoso dell’epoca, pubblicato da Aldo Manuzio nel 1499, intitolato Hypenorotomachia poliphili, noto anche come Polìfilo, (amoroso combattimento onirico di Polifilo). Si tratta di un viaggio iniziatico che ha per tema centrale la ricerca della donna amata, metafora di una trasformazione interiore alla ricerca dell’amore platonico.
Il libro è illustrato con 172 splendide xilografie, realizzate da un artista ignoto che mostrano le scene, gli elementi architettonici e i personaggi che Polìfilo incontra nei suoi sogni. Le illustrazioni sono forse la parte migliore del libro, con uno stile grafico in perfetta armonia con il carattere tipografico utilizzato.
Lo psicoanalista Carl Gustav Jung ammirava il libro, ritenendo che le immagini oniriche preannunciassero la sua teoria degli archetipi. Il testo è stato scritto trent’anni prima, in un misto di italiano, veneziano, ebraico e arabo, da un frate domenicano trevigiano di nome Francesco Colonna. Non tutti gli studiosi concordano sull’identificazione, altri ritengono che vada associato all’omonimo principe romano che visse a Venezia in quel periodo.
Il Polìfilo vale nella storia dell’editoria, come la Cappella Sistina conta nella storia della pittura. Nei vent’anni di attività come editore, Aldo Manuzio ha pubblicato centrotrenta edizioni in greco, latino e volgare. Dopo la morte, nel febbraio 1515 la sua produzione contraddistinta dal marchio di un delfino avvolto intorno al fuso di un’ancora, venne continuata dagli eredi fino alla fine del secolo.

 

Felice Presta

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La Redazione 12 Maggio 2023 0
Cultura

Wilfred Thesiger, l’aristocratico avventuriero

Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.

In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.

Il terreno dove si fermarono per la notte era accidentato, Eric e il suo compagno tirarono fuori i materassi da campo. “Dio mio, che coppia di checche…”, fu il commento sarcastico di Thesiger mentre si sdraiava sulle rocce.

Figlio di diplomatici, primo inglese a nascere in Etiopia, dove il padre era ministro plenipotenziario, aveva passato la sua infanzia in un mondo dal “barbarico splendore”. Ignorava il cricket e il football, ma sapeva tutto di caccia, non si occupava delle questioni politiche, ma aveva visto la sanguinosa lotta per la successione al trono di Menelik, con i vinti trascinati in catene, il suono assordante dei tamburi, l’armata vittoriosa di Ras Tafari con le insegne e il bottino di guerra. In questa enclave cristiana in mezzo alle terre islamiche, Thesiger dopo essere ritornato in patria, si dovette adattare a un ambiente fatto di regole di comportamento, riti sociali, gerarchie dove nulla di ciò che gli piaceva era di moda, un piccolo mondo di compunti funzionari che vedevano in lui solo il lato disdicevole di non appartenenza allo stesso clan sociale. Il giovane Thesiger, troverà nei pugni, nell’isolamento e della letteratura epica una strategia di sopravvivenza. Fu rispettato e accettato, ma non compreso. Eppure tutti i condizionamenti esterni e il clima familiare non bastano a spiegare la formazione di un carattere.

 

La vita di Thesiger obbedisce a degli impulsi interiori che sfuggono alle spiegazioni logiche: figlio a pieno titolo dell’élite britannica, ma straniero in patria. Affascinato dalle tradizioni, dalle consuetudini, dalla magnificenza del passato, spesso portato a identificarsi più con quelle degli altri popoli che con le sue; l’inglesità come marchio d’origine, subita ma non troppo amata, mai rinnegata, la passione per i grandi spazi e le grandi solitudini, l’idea che le civiltà tradizionali siano più vere, più vicine ai bisogni e ai sentimenti primari e fondamentali dell’uomo.

Un turbine di contraddizioni, da cui uscirà scegliendo l’unica forma di devianza possibile: viaggiare. Si scopre un elegante fuorilegge, senza pulsioni banditesche. È antisociale, segue il proprio istinto, non pensa ai destini collettivi, non ha la coscienza di classe, scegli chi è simile a lui indipendentemente da come nasce; non riconosce i criteri che regolano professioni, successo, carriera e guadagni, non sono alla base delle sue scelte.

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La Redazione 9 Maggio 2023 0
BlogCultura

Da Lisbona a Calicut: il viaggio di Vasco Da Gama

 

A Lisbona sulla riva del fiume Tago, di fronte al Monastero dos Jerónimos, si vede l’imponente Padrão dos Descobrimentos, il Monumento alle Scoperte che celebra tutti i navigatori portoghesi che tra il XV e XVI secolo scoprirono nuove terre e tracciarono le più importanti rotte commerciali contemporanee. L’enorme caravella di pietra è decorata su entrambi i lati da un gruppo scultoreo che rappresenta i protagonisti delle grande imprese marinare del Portogallo: navigatori, cartografi, colonizzatori, missionari, guerrieri, scrittori, re e regine. Tra questi non poteva mancare il nome di Vasco da Gama e di lui vogliamo raccontare, approdo dopo approdo, uno delle sue traversate memorabili alla ricerca di un regno leggendario.

Nel 1497 Manuele I, re del Portogallo, individua nel giovane comandante Vasco da Gama il navigare più preparato per completare il lavoro cominciato da Barlomeu Dias, che dieci anni prima aveva doppiato l’Africa meridionale, scoprendo finalmente il passaggio tra l’Oceano Atlantico e l’Indiano. In quel tempo i veneziani detenevano il monopolio del commercio delle spezie e la corte portoghese aveva intenzione di spezzare questo equilibrio, fonte della sterminata ricchezza e della potenza della Repubblica del Leone. La noce moscata, la cannella, il pepe, i chiodi di garofano sono beni preziosi come l’oro e bisogna organizzare una vasta operazione per accaparrarseli. Il nobile Vasco da Gama, nato 28 anni prima a Sines, nell’Alentejo, sembra al re portoghese l’uomo giusto e malgrado le perplessità del suo entourage, autorizza la preparazione di una spedizione per aprire nuove rotte commerciali, aggiungendo un elemento religioso con il desiderio di evangelizzare quelle terre lontane dove si pensava vi fosse il regno del misterioso Prete Gianni. Vasco da Gama ha due qualità: è un abile comandante e sa combattere, infatti cinque anni prima aveva catturato alcuni vascelli francesi che minacciavano il Portogallo.

8 luglio 1497. Le partenze dalla foce del Tago non sono una novità per gli abitanti di Lisbona. Quelle navi che salpano per terre lontane e sconosciute, sono uno spettacolo da non perdere: rulli di tamburi, tuoni di cannone, squilli di tromba e bandiere al vento. Quel giorno si preparano a solcare l’oceano anche le quattro unità al comando di Vasco da Gama. Sono la Sao Gabriel, un veliero da circa 150 tonnellate con le insegne dell’ammiraglio e sotto il suo comando; la Sao Rafael, più o meno della medesima stazza, affidata al fratello Paulo da Gama; assieme con loro salpano la più piccola caravella Berrio e una quarta unità ausiliaria, la nave delle salmiere, poco considerata a tal punto da essersi perso il nome. Non sono semplici vascelli, sono stati costruiti appositamente seguendo i suggerimenti di Bartolomeu Dias che conosce bene quali caratteristiche debbano avere le unità destinate ad andare oltre il Capo di Buona Speranza. Si imbarca anche lui per dare consigli e indicazioni, insieme a 170 uomini che formano l’equipaggio.

La navigazione procede tranquilla fino alle Canarie, dove una nebbia intensa fa disperdere la flottiglia che si ricongiunge all’altezza di Capo Verde. Dias torna indietro. Mentre da Gama vuole mostrare di potercela fare rischiando molto: niente navigazione sotto costa, come si usava in quel periodo, ma in pieno oceano, seimila miglia di mare e almeno tre mesi di navigazione senza vedere terra. Anzi, per sfruttare i venti favorevoli, il portoghese sceglie la rotta verso sud-ovest che lo allontana ulteriormente dall’Africa. Sarà il più lungo viaggio in mare aperto compiuto fino a quel momento.

4 novembre 1497. Dopo una virata, la spedizione lusitana sbarca in un punto della costa sudoccidentale del continente dove i marinai mangiano foche, balene, gazzelle e radici. L’incontro con la popolazione locale dapprima sembra pacifico, ma poi aumenta la tensione e cominciano gli scontri con l’equipaggio e lo stesso Vasco da Gama che resta leggermente ferito da una freccia. Il convoglio riprende il mare. Ormai l’Oceano Indiano è vicino e, superato capo Agulhas, la punta più meridionale dell’Africa, le navi abbandonano l’Atlantico.

16 dicembre 1497. Percorse un centinaio di miglia, le navi si avvicinano alla baia di Mossel, il punto estremo raggiunto dalla precedente spedizione di Dias. Da lì si aprono 800 miglia di mare inesplorato prima di raggiungere i porti musulmani dell’Africa, dove sarà possibile trovare piloti. L’ammiraglio ordina di prendere terra, la nave più piccola, viene bruciata e le provviste rimanenti sono trasferite a bordo delle tre unità. Il 25 dicembre Vasco da Gama decide di chiamare Natal quella regione australe; nome conservato ancora oggi dalla provincia sudafricana di KwaZulu-Natal. Le navi ripartono dopo tredici giorni di sosta, con i marinai che affrontano un altro incontro ostile con gli indigeni che alla loro partenza demoliscono la colonna che i portoghesi avevano innalzato in memoria dello sbarco. Meno tesa è la situazione sul fiume Limpopo, nell’attuale Mozambico, dove le popolazioni seppur armate, si comportano si dimostrano amichevoli.

22 febbraio 1498. I portoghesi hanno un primo contatto con un musulmano alla foce di un fiume e dopo qualche giorno approdano vicino all’odierna città di Nacala. Qui c’è un importante porto e cantiere arabo, dove finalmente trovano i carichi di spezie, pietre preziose e altre materie. I marinai arabi spiegano ai Portoghesi che il regno del Prete Gianni si trova all’interno, a soli quattro giorni di viaggio. Il sultano all’inizio pensa che i nuovi venuti siano dei fratelli musulmani e li tratta amichevolmente, poi quando si rende conto che non è così, comincia a trattarli con disprezzo e disdegna i doni ricevuti. Vorrebbe delle pezze di panno rosso che i lusitani dicono di non avere perché hanno deciso di regalare al re di Calicut. La fama del tessuto noto come “scarlatto di Venezia” è giunta fino alle propaggini estreme del mondo musulmano. A questo punto l’atmosfera si fa tesa e Vasco da Gama decide di riprendere la via del mare, ma i venti contrari costringono le navi a tornare da dove sono venute. La situazione precipita. Scesi a terra per fare scorte d’acqua, i portoghesi vengono aggrediti. In tutta fretta, imbarcano due piloti arabi, pratici di carte e bussole e si dirigono verso Mombasa. Lì stesso copione: accolti perché creduti musulmani, l’atteggiamento delle popolazioni locali cambia quando si rendono conto di avere a che fare con cristiani. Tentano addirittura di catturare le navi con un attacco notturno. Di nuovo in mare, direzione Malindi, dove basta un giorno di navigazione. La situazione cambia completamente, l’ambiente è rilassato, nella città keniota è possibile imbarcare frutta fresca, grano e ortaggi e, dopo aver ingaggiato un altro pilota, originario di Alessandria d’Egitto, si riparte.

24 aprile 1498. Le navi tolgono le ancore dall’Africa dirigendo le prue verso l’India. Dopo 23 giorni di navigazione le vedette nelle coffe scorgono le montagne: sono arrivati a destinazione. Il 20 maggio i Portoghesi ormeggiano a Calicut, ovvero l’odierna Kozhikode, sulla costa del Malabar, nella regione indiana del Kerala. È il principale porto delle spezie dove caricano i Veneziani. L’ammiraglio ricorda un aneddoto: due mercanti tunisini si rivolgono a quel gruppo di europei in genovese. Nel porto circolano monete d’oro arabe, ducati veneziani e genovini; si può bere il vino dolce di Creta e altre specialità provenienti da tutto il mondo.

Calicut viene descritta con meraviglia: decine di elefanti addomesticati vengono cavalcati e utilizzati persino per varare le navi. Il Re è fuori città, ma rientra non appena apprende dello sbarco degli Europei e manda a chiamare Vasco da Gama in attesa sulla nave. Questi sbarca con dodici uomini e un migliaio di persone li scortano fino al palazzo reale, dove vengono accolti dal sovrano in un ambiente di lusso e splendore. Ma quel che più conta agli occhi dei portoghesi è la zona portuale: sono agli ormeggi oltre cinquecento imbarcazioni e ogni anno arrivano fino a 1500 navi arabe che trasportano le spezie al Golfo Persico, dove poi vengono sbarcate per raggiungere con i cammelli Alessandria d’Egitto. Nessuna mercanzia europea viene considerata interessante, salvo il lino: i marinai riescono a piazzare molto bene alcune camicie in cambio di spezie. Anche qui i rapporti con il re si guastano, un po’ per i doni giudicati scadenti, un po’ per via degli Arabi che non gradiscono l’arrivo dei portoghesi. Lo zamorin (sovrano) fa arrestare i marinai e si convince a lasciarli andare solo trattenendo qualche ostaggio.

29 agosto 1498. Le navi di Vasco di Gama lasciano Calicut. La traversata dell’Oceano Indiano che all’andata aveva richiesto una ventina di giorni, ora, a causa dei venti contrari, dura alcuni mesi. Lo scorbuto uccide una trentina di marinai e una volta raggiunta Malindi, il comandante fa bruciare una della navi per completare gli equipaggi delle due navi superstiti. Siamo a febbraio quando le navi riprendono il mare, il 20 marzo doppiano Capo di Buona Speranza, a luglio raggiungono le Azzorre, dove muove Paulo da Gama. Il 9 settembre 1499, dopo oltre 24 mila miglia di mare, Vasco da Gama, rientra da trionfatore a Lisbona.

Il ritorno e il nuovo viaggio.

Tornato in patria, riceve dal re Manuele I la nomina di Ammiraglio dell’Oceano Indiano, con relativa gratifica e concessione del feudo di Sines, ma ha poco tempo per riposarsi. Il 10 febbraio 1502 ricomincia con una spedizione di una ventina di navi, una flotta importante per posizionare degli avamposti portoghesi sulle terre esplorate e rafforzare la potenza marittima del Portogallo. Si fermano a Sofala, in Mozambico, obbligando il sovrano locale a versare un contributo, poi giungono a Kilwa, in Tanzania attivando una rotta commerciale. Nel frattempo a Vasco da Gama giunge la notizie dell’attacco subito dalla spedizione guidata da Pedro Alvares Cabral a Calicut. A quel punto riprende il mare e al largo della costa del Malabar attacca le imbarcazioni dei mercanti arabi, quindi sfrutta le rivalità locali e si accorda con il re di Kannur, una città a 100 chilometri da Calicut. Qui appena giunto, non ottenendo dal sovrano quanto richiesto, ordina di bombardare la città. Durante il viaggio di ritorno stipula un trattato a Cochin l’attuale Kochi e riempie le stive di spezie. Tornerà ancora una volta in India, nel 1524 per morire a Cochin a causa della malaria.

 

FELICE PRESTA

 

 

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La Redazione 4 Maggio 2023 0
BeneventoCultura

Gigi e Ross direttori artistici del Benevento Social Film Festival ArTelesia

Gigi e Ross direttori artistici del Benevento Social Film Festival ArTelesia

La quindicesima edizione del Social Film Festival è stata affidata dall’Associazione Libero Teatro a Gigi e Ross, i due attori comici partenopei noti al grande pubblico per la partecipazione e la brillante conduzione di diverse trasmissioni televisive. La scelta, auspicata da alcuni anni, dall’ideatore del Festival, Francesco Tomasiello, non è solo riferibile alla professionalità, al talento artistico, al dinamismo dei due attori mattatori, formatisi presso l’Accademia di arte drammatica Bellini di Napoli, bensì alla carica umana e alla sensibilità per le tematiche sociali che rappresentano il cuore pulsante del Festival. L’incontro con Gigi e Ross è stato fin da subito ricco di input, progetti, proposte, il tutto in un clima di simpatia e cordialità che contraddistingue il loro modo di essere, autentico e sincero, davanti e dietro la camera. Grazie a loro il Festival si prepara a vivere una stagione di rinnovamento, con tante sorprese e novità per gli amanti del cinema e dell’arte. Quello che Francesco auspicava si è realizzato: un incontro di persone e di storie, prima ancora che di artisti, e la loro esperienza sul campo rappresenterà il quid per il futuro del festival, conservandone e preservandone la sua storia. I due direttori artistici saranno coadiuvati, nel lavoro che durerà, a partire a oggi, diversi mesi, dal comitato direttivo che rappresenta la task force del Festival nelle persone di Mariella De Libero, Antonio Di Fede, Sergio Colantuono, Marvin Tomasiello, nel ruolo di Festival coach, Rosa Barone, Mariasimona Marrone, Stefano Addabbo, Veronica Spiotta, Lupo Tomasiello e Franco Francesca, in qualità di Direttore creativo del Festival. Con tutte queste persone Gigi e Ross hanno creato immediatamente un rapporto sinergico fondato sulla fiducia reciproca e sulla condivisione degli obiettivi artistici e sociali da conseguire nell’alveo delle parole chiave: Equità diversità inclusione disabilità e sostenibilità.

 

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La Redazione 11 Aprile 2023 0
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