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Senza categoria

Sinistro, eccentrico, morboso: Mario Praz, collezionista di solitudini

 

Travelling. Empire forniture», così venivano indicati gli svaghi di Mario Praz nella sua voce sul Who’s Who. Viaggiare e collezionare antiquariato, con una predilezione per lo stile Impero. Poche parole per riassumere la passione di una vita; opere d’arte che restano, certo, ma anche un ecosistema di conoscenza, ricordi e incontri destinato a scomparire quando cala il sipario, si fa buio e gli occhi non vedono più.

Che quello di Praz per l’antiquariato fosse vero amore non ci sono dubbi, basti pensare alla cura con cui scrive della sua collezione ogni volta che ne ha l’occasione, indugiando sui dettagli con la tenerezza di un raffinato maniaco. Un legame a tal punto definitivo che nelle pagine di La Casa della Vita l’autobiografia si riflette nella descrizione degli oggetti d’arte dell’abitazione di via Giulia, in uno strano transfert fra individuo e arredamento. Insomma, a modo suo anche la casa di Praz è una casa stregata, e in molti sono certi che la sua ombra si muova ancora silenziosa tra le cere policrome e i candelabri d’argento.

Pensando a Praz viene naturale immaginarlo solitario e spaventato dagli altri, rifugiato in una torre d’avorio dove il tempo si ferma e non si sentono voci, in quella dead life che la ex-moglie gli rimproverava. Forse è tutto vero, ma non dobbiamo pensare che certe scelte siano piacevoli scorciatoie e non è detto che amare le cose sia più facile che amare le persone. Non è un caso che il Professore citasse spesso Jiří Orten e la sua visione dell’amore bugiardo degli oggetti:

«Sarai il più abbandonato, quando le cose ti abbandoneranno. Le cose non domandano: dicono di sì a tutto. Le cose sarebbero delle magnifiche amanti».

Certo è che simili passioni determinano incomprensioni, giudizi, persino accuse, e non tutti seppero apprezzare l’intensità di questo hobby. Alcuni lo trovarono eccentrico, altri patologico, altri ancora sinistro e morboso. Fu anche il parossismo di questa passione, che portava Praz ad avere «le stanze piene e le tasche vuote», a contribuire alla creazione di una inquietante aura attorno alla sua figura. In fondo, i veri solitari non piacciono mai e non si può accettare che un uomo viva intrattenendo simili relazioni con oggetti apparentemente inanimati.

Il caustico Cyrill Connelly – il “Palinuro” della Tomba Inquieta – in una recensione beffarda intitolata The House of Antilife dileggiò le lunge e precise descrizioni di Praz: il libro gli parve un «tour de force della scocciatura» e l’anglista, con il suo «occhio di formica», gli sembrava avere rispetto ai suoi oggetti «un eccessivo senso della loro importanza in relazione a sé stesso e viceversa». Ma Connelly era troppo distratto dalla mondanità per giungere al cuore delle cose e, del resto, non avrebbe neanche voluto pagare il prezzo di una passione che costa una vita. Il Professore, dal canto suo, non si scompose più di tanto: da perfetto innamorato incassò le critiche, sorrise bonariamente e si fece scivolare tutto addosso; certo di sapere dove stava la verità e risoluto nel non mettere in discussione neanche per un istante la qualità dei suoi venerati oggetti d’arte.

 

In effetti, il rapporto tra Praz e il proprio appartamento meticolosamente arredato non manca di un certo interesse psicoanalitico. Significativo in questo senso il passaggio della postfazione alla riedizione della Casa della Vita, in cui il Professore descrive il disamore nei confronti del suo appartamento dopo un tentativo di furto. Il ladro viene messo in fuga e non riesce a rubare niente, ma la casa è stata profanata, le virginali stanze offese:

«il tempio era stato violato, né esisteva rito prescritto per riconsacrarlo […] quell’effrazione aveva cambiato il carattere della casa, vi aveva fatto passare sopra il soffio della morte».

L’incantesimo si era rotto, non tanto rispetto alla collezione, con cui era stato stretto un patto incorruttibile, ma con le mura dell’abitazione. Praz, di lì a poco, avrebbe deciso il trasloco nel nuovo appartamento di Palazzo Primoli, dove il rituale sarebbe ricominciato da capo per non finire mai.

Una così alta considerazione di quella “Empire forniture” non poteva poi non espandersi anche agli antiquari, coloro che rendono possibile la sublimazione di un oggetto da avanzo dimenticato a opera d’arte.

Praz riconosce i meriti della categoria con arguzia e onestà, riportando aneddoti e testimonianze curiose (tra i molti nomi anche quello di Fabrizio Apolloni, il cui figlio Marco Fabio, a testimonianza di un profondo legame tra antiquariato e letteratura, è autore di un eccezionale romanzo, Il mistero della locanda Serny, finalista al Premio Strega del 2004). Secondo il Professore, il magico potere dei mercanti d’arte antica sarebbe quello di rendere nuovo il vecchio «illuminando il valore storico e artistico d’un opera antica sì da renderla appetibile ai moderni» e, al contrario, vecchio il nuovo «dissimulando tutto quello che il restauro e l’abile interferenza moderna hanno aggiunto». In un certo senso gli antiquari agiscono nel tempo, negando l’hic et nunc dell’economia moderna e, chissà, forse è proprio questo il motivo di una certa diffidenza che talvolta viene loro riservata.

Inoltre, Praz non teme di affermare che il mondo della cultura ha spesso guadagnato più dalle scoperte di avventurosi antiquari che non dalle elucubrazioni di sedentari studiosi. Il motivo è semplice, laddove un filologo può dilungarsi in pagine e pagine di congetture strampalate senza rischiare che la spesa della carta, l’antiquario paga di persona i suoi sbagli, rimettendoci il proprio patrimonio. Ho sorriso leggendo queste righe: mio padre è un antiquario e, da quando sono bambino, sento spesso ripetere queste parole secondo diverse varianti (tra cui la più gettonata, quella in cui si menziona il didietro e i rischi che esso corre).

 

Felice Presta

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La Redazione 21 Giugno 2023 0
Senza categoria

Shale gas, rischi o opportunità?

Il petrolio non è finito e nemmeno il gas. Nei sottosuoli ci sono ancora abbondanti riserve di energia fossile. Malgrado ciò, esse non sono infinite e presto si dovrà affrontare il problema di come uscire definitivamente dall’epoca del petrolio e produrre tutta l’energia in modo alternativo. Chi spera in un abbandono nel breve periodo degli idrocarburi (30-40 anni), dovrà ricredersi perché stiamo varcando una nuova frontiera con ripercussioni positive e negative ancora tutte da scoprire. Gli Stati Uniti d’America hanno ripreso a macinare con il gas non convenzionale, volgarmente noto come “shale”, un gas estratto da rocce argillose in cui è trattenuto. La tecnica di estrazione, nota come “fracking”, fratturazione idraulica, è al centro di una controversia tra sostenitori e detrattori. La Cina affamata di energia, il Canada e il Messico si stanno attivando per aumentare questo tipo di estrazioni non convenzionali. Anche in Europa ci sono giacimenti, ma da noi l’atteggiamento resta più prudente e ogni paese ha deciso di regolarsi autonomamente. Gli interessi non sono soltanto di natura commerciale, nella partita energetica entra in campo la forza politica di una nazione. Gli idrocarburi derivati da argille possono mutare l’asse geostrategico oggi incentrato sui pozzi mediorientali e le condotte russe. Tutto è nato intorno al gas o meglio all’esigenza degli Stati Uniti di aumentare la produzione di fronte all’aumento dei consumi. Nel 2000 alcune piccole società (la prima è stata la Mitchell Energy), cominciarono a pensare di sfruttare una serie di giacimenti conosciuti ma fino allora mai sfruttati per ragioni economiche.

Conosciuti con i termini shale o tight, questi giacimenti sono costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo e argilla: quando quest’ultima è predominante, si parla di shale, altrimenti le formazioni sono semplicemente tight. In molti casi, giacimenti tight sono confusi con gli shale, perché dall’analisi dei dati di giacimento risultano pressoché simili. A vederle ad occhio nudo, sembrano pietre di granito o cemento, non si pensa che contengano gas e petrolio. Per tutto il secolo è stato quasi impossibile, dato il basso livello di porosità e permeabilità, estrarre a costi contenuti. All’inizio le grandi multinazionali avevano sottovalutato la dimensione delle riserve di shale gas. La perforazione combina due tecniche: la trivellazione orizzontale e la fratturazione idraulica, o “fracking”. Nella perforazione orizzontale la trivella scava un pozzo in verticale nel sottosuolo, per poi deviare a 90 gradi ed entrare in lunghissimi ma poco spessi strati di rocce orizzontali che, come spugne solide, imprigionano idrocarburi. È a questo punto che interviene la fratturazione idraulica. Mentre la trivella procede, si “sparano” acqua, sabbia (o ceramica) e agenti chimici all’interno del pozzo a intervalli regolari. L’acqua rompe la roccia, sabbia e agenti chimici impediscono che le rotture create si richiudano o implodano e così favoriscono la “fuga” in superficie di gas e petrolio. Queste tecniche non sono una novità, le prime fratturazioni idrauliche conosciute risalgono al 1949. Il dilemma più delicato riguarda ovviamente l’impatto ambientale. Secondo critiche ben motivate, questo tipo di trivellazione impiegata per l’estrazione di petrolio e gas da formazioni shale e tight, provocherebbero piccoli terremoti e il rischio di inquinare le falde acquifere.

L’eco di queste preoccupazioni ha raggiunto l’Europa: la Francia ha vietato temporaneamente il fracking, in altri paesi come Svezia e Germania si sta manifestando una forte ostilità, così come in Italia dove molti territori saranno oggetto di esplorazioni. Le acque “sparate” e stoccate in enormi quantità sotto terra, in effetti, possono provocare un distacco delle faglie e il loro scivolamento, e quindi piccoli terremoti. Dal 2010 in tutto il Midwest americano sono aumentati gli sciami sismici, dopo l’intensificarsi dell’attività di trivellazione convenzionale e non convenzionale. È solo una coincidenza? In alcuni casi come in Ohio e in Inghilterra, le scosse hanno raggiunto i due gradi Richter. In Emilia, ammesso che il fracking non si pratichi, ci sono 514 pozzi perforati, di cui 69 non produttivi e destinati ad altro uso (fonte Ministero Ambiente). Molti sostengono che il terremoto verificatosi nel 2012, sia una conseguenza dell’attività dei pozzi di “reinezione” di rifiuti liquidi provenienti da estrazioni di gas e petrolio “convenzionali”.

Molti studi confermano la connessione tra sismicità e attività di trivellazione. A maggio 2012 l’International Energy Agency ha pubblicato un rapporto dove sono contenute le regole per minimizzare i rischi ambientali connessi alla produzione di gas da giacimenti “non convenzionali”. Come già accennato, tali rischi hanno spinto Francia, Bulgaria e alcuni stati americani (Vermont e altri) a proibire per ora questa pratica. Questo tipo di trivellazioni sono molto invasive (più di un pozzo a km quadrato, mentre per le tecniche convenzionali basta uno ogni 10 km). Occorre un gran movimento di camion: 100-200 per la costruzione di ogni pozzo, fino a 650 per portare l’acqua necessaria per il metodo della fratturazione idraulica, altre centinaia per rimuovere le decine di tonnellate di pietra prodotte da ogni torre di trivellazione. Traffico e inquinamento a cui si aggiunge quello dei motori diesel che forniscono energia al pozzo. Oltre a questo c’è il problema dello stoccaggio e dello smaltimento accurato del “mud” il fluido fanghiglioso con cui si lubrifica la trivellazione. Si aggiunga poi quella porzione di fluido usata per la fratturazione idraulica – composto di acqua, grani di sabbia o ceramica e additivi chimici – che ritorna in superficie portando con sé metalli e minerali talvolta leggermente radioattivi. Inoltre, il rivestimento interno in cemento del pozzo, deve essere impeccabile per evitare infiltrazioni di ogni tipo nel terreno e nelle falde acquifere. Insomma, ci sono buoni motivi per non stare troppo rilassati.

FELICE PRESTA

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La Redazione 10 Giugno 2023 0
CulturaSenza categoria

Carroll Quigley e la dimensione oligarchica della storia

La letteratura sulle cospirazioni è ricca, non conosce crisi. Ultimamente, diversi autori, per lo più americani, sono diventati milionari grazie a ricostruzioni e descrizioni del nuovo ordine mondiale. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: un manipolo di uomini controlla tutto all’interno di organizzazioni riservate. Ma è proprio tutto così semplice? Il problema di questi libri è una notevole superficialità nel trattare l’argomento, così come una eccessiva semplificazione che non aiuta a comprendere l’effettiva trama del potere, le sue articolazioni su più livelli e la dialettica all’interno degli stessi apparati. La questione è molto più complicata, non si può ridurre con qualche nome e sigla da offrire come grande cospiratore, altrimenti finiamo nel romanzo popolare. Meglio leggersi “La storia dei tredici” di Honoré de Balzac.

C’è stato un periodo in cui l’analisi del Potere internazionale e delle sue articolazioni era una questione più seria. Pochi conoscono il Professor Carroll Quigley, controverso storico, che insegnò ad Harvard, Princeton e Georgetown tra gli anni quaranta e settanta del Novecento. Egli era convinto che l’establishment nel mondo anglo-americano fosse un argomento tabù su cui gli studiosi di alto rango non si fossero mai davvero cimentati. Lo stesso Quigley si considerava un membro delle alte sfere e si dichiarava espressamente d’accordo con le idee guida di questa classe dirigente, anche se non condivideva l’eccessiva riservatezza della rete di potere.

Così Quigley, con una ricerca durata molti anni, ricostruisce famiglie, connessioni e modus operandi di questi gruppi con la pubblicazione, nel 1966, di Tragedy and Hope, libro di più di mille pagine in cui si ricostruisce la vicenda del potere anglo-americano tra i primi del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale. L’opera è diventata anche un oggetto di culto per collezionisti, una lettura difficile e pesante, disponibile solo in inglese, con alcune sintesi tradotte che descrivono il nocciolo della teoria di Quigley.

Cosa scopriva Quigley? Che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano e sono governati da minoranze marginalmente toccate dalle dinamiche elettorali. Il centro di questo potere erano i salotti finanziari animati dalle grandi famiglie: i Rothschild, i Morgan, i Rockefeller, i Lamont e nel Regno Unito i ricchissimi Cecil Rhodes e Alfred Milner. Il loro potere si strutturava per network: proprietà di giornali, finanziamenti delle università, creazione di fondazioni e centri di ricerca, partecipazione assidua alla vita dei partiti e finanziamento di entrambe le fazioni, costante presenza nelle alte cariche amministrative dello Stato.

Quigley elencava le caratteristiche di questo establishment. Nel Regno Unito era concentrato a Londra, nella City e nei club, mentre negli Stati Uniti viveva nelle grandi città della East Coast. Tutti i componenti di questa élite erano bianchi, in larga maggioranza protestanti (seppure non mancavano gli ebrei ed erano ammessi cattolici come i Kennedy), d’idee cosmopolite, progressiste e internazionaliste, protese alla conquista dei mercati esteri e spregiudicate da fare affari con tutti i regimi politici.

Geminello Alvi le definisce “aristocrazie venali” per evidenziare la propensione a mettere al centro delle proprie azioni il calcolo economico. Quigley ricorda come a questa élite, non interessano molto i vincitori delle elezioni, quanto essere sempre presenti nei posti di comando fondamentali. Ciò avveniva e avviene ancora, grazie ai potenti sistemi di reclutamento messi in campo: le università della cosiddetta IVY League, il CFR (Council on Foreign Relations) e i “think tank”, fondazioni di formazione politico-culturale. Queste strutture selezionano una classe politico-amministrativa che rispecchia, per linee e porzioni, il pensiero dell’establishment. Quigley passa in rassegna una quantità impressionante di biografie di piccoli e grandi potenti mostrando come tutti, abbiano trascorso almeno un periodo della loro vita dentro queste organizzazioni.

Il suo libro si caratterizza per il rigore scientifico, i dati storici elencati mettono un freno alle teorie complottistiche più fantasiose e superficiali. La sua opera si limita a mostrare i rapporti, le connessioni, i finanziamenti, le parentele tra i potenti dell’anglosfera che di fatto domina ancora, con nuovi nomi e volti ma con una origine e connessione comune.

Difficile valutare se Quigley avesse ragione o meno su tutto. Certo è che vista in retrospettiva la struttura del potere americano appare coerente con le suggestioni dello storico. Non è un caso, infatti, che la politica americana presenti delle vere e proprie dinastie: i Kennedy, i Bush, i Clinton. Adesso proprio a Washington è in corso uno scontro tra élite vecchie e nuove. Vincere le elezioni non basta, serve il controllo dei posti di comando.

Ciò non dimostra che esiste una congiura per governare il mondo e dirigere la politica mondiale, ma è evidente che Quigley sveli un aspetto importante del funzionamento e delle idee delle classi dirigenti britanniche e americane con caratteristiche comuni definite. Alcuni aspetti spiccano su tutti: i canali di selezione fuori dal circuito democratico, un orientamento a tendenza imperiale, rivolto verso l’esterno sia economicamente che culturalmente e una omogeneità di questa élite rispetto a quelle europee.

Storici famosi di stampo anglosassone come lo stesso Quigley, Arnold J. Toynbee, Samuel Huntington fino al contemporaneo Niall Ferguson ragionano in termini di civiltà ponendole al centro delle proprie ricerche, molto più degli studiosi europei contemporanei. Arnold Toynbee è noto al pubblico per gli studi sui cicli delle civiltà e per aver teorizzato che a capo di ogni ciclo si ponga una minoranza creativa, stabile con proprie regole e, soprattutto, una propria e precisa cultura. Nel 2018, il britannico Niall Ferguson ha dato alle stampe “La piazza e la torre” in cui passa in rassegna le reti del potere cavalcando le epoche storiche, muovendosi dalla massoneria settecentesca fino alla nuova aristocrazia industriale delle Big Tech. Ferguson vende milioni di copie, ma forse farebbe fatica a trovare uno spazio accademico nell’Europa continentale dove, tesi così audaci, sono poco tollerate dalla classe intellettuale.

La forza e la selezione dell’élites è una caratteristica molto forte della sfera anglosassone. D’altronde Michael Mann, noto sociologo e tra gli ultimi teorici dell’impero, considera quello americano un potere infrastrutturale capace di flettersi e snodarsi dentro e fuori l’America, con una articolazione in quattro dimensioni: militare, economico, politico e culturale. Le caratteristiche che lo storico dell’Antica Roma, Ronald Syme, individuava anche per la Repubblica Romana, guidata da una oligarchia omogenea e culturalmente compatta con progetti, tradizioni e schemi mentali delineati. Sforzarsi di comprendere bene queste dinamiche, conoscere questa storia, può fornire spunti per comprendere meglio il mondo che ci circonda, oltre il velo delle apparenze. Perché la storia la disciplina che più delle altre può fornire gli spunti per disegnare le strategie e comprendere le inclinazioni, le sensibilità e anche le pericolosità di avversari e alleati.

 

Felice Presta

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La Redazione 16 Maggio 2023 0
Senza categoria

Moises Naim, la fine del potere

Moisés Naím
La fine del potere
Mondadori, 2013

Questo saggio affronta il tema della trasformazione del potere e di come noi lo percepiamo. Per semplificare, il potere non garantisce più gli stessi privilegi di un tempo, nel XXI secolo è diventato più facile da conservare, ma più difficile da esercitare e più facile da perdere.
Dai consigli di amministrazione, ai campi di battaglia, passando per il cyberspazio, le lotte per il potere sono più intense che mai, ma rendono sempre meno e la loro asprezza ma-schera una dimensione evanescente, dove le barriere difensive del potere, un tempo solide, ora sono più semplici da colpire. Ciò non significa che il potere sia scomparso o che non vi siano più soggetti che ne possiedono in abbondanza, solo che chi lo detiene è forse più vincolato, più esposto al monitoraggio esterno. Aristotele sosteneva che potere, ricchezza e amicizia erano le tre componenti necessarie per la felicità individuale. Una definizione semplice del potere può essere questa: la capacità di indirizzare o ostacolare il corso o le azioni future di altri gruppi e individui.
Oppure, in altre parole, il potere è la forza che esercitiamo sugli altri e che li porta a com-portarsi come altrimenti non si sarebbero comportati. Tale approccio pratico non è né nuovo né controverso ma è una definizione di Robert Dahl del 1957 contenuta in The con-cept of power. Moisés Naím fa derivare queste modificazioni da tre trasformazioni che definisce: la rivoluzione del Più, della Mobilità e della Mentalità.
La rivoluzione del Più, contrassegnata da aumenti in ogni ambito, dal numero dei paesi a quello degli abitanti, dal tenore di vita al miglioramento dell’istruzione, passando per la quantità di prodotti disponibili sul mercato; la rivoluzione della Mobilità, che ha messo in movimento persone, merci, denaro, idee e valori a velocità in precedenza inimmaginabili verso tutti gli angoli del pianeta; la rivoluzione della Mentalità che riflette gli importanti cambiamenti in termini di aspirazioni e aspettative che hanno accompagnato questi nuovi sviluppi.
Tali cambiamenti hanno favorito in numerosi campi l’arrivo di nuovi soggetti: innovativi e ribelli, attivisti e terroristi. Hanno offerto svariate opportunità ai militanti democratici e a movimenti politici con programmi radicali e aperto all’influenza politica vie alternative, che aggirano e abbattono la formale rigida struttura interna all’establishment. Aumentata la velocità di propagazione, i movimenti orizzontali hanno rivelato anche l’erosione del monopolio esercitato un tempo dai partiti politici tradizionali.
Nella politica internazionale, i piccoli protagonisti – sia paesi “minori” o entità non statali – hanno acquisito nuove opportunità di interferire, dirottare e ostacolare gli sforzi delle grandi potenze. Questi importanti ed eterogenei piccoli protagonisti hanno alcune cose in comune: il fatto che non necessitano più di grandi dimensioni, di ampio raggio d’azione e di una storia e tradizione per lasciare il segno. Rappresentano l’ascesa di un nuovo tipo di potere – un “micropotere” – che in passato aveva poche possibilità di successo. L’ascesa dei micropoteri e la capacità di sfidare i grandi è un fattore importante della nostra epoca. La decadenza del potere non implica l’estinzione dei grandi protagonisti (governi, eserciti, università, multinazionali), le loro azioni avranno ancora un peso notevole, ma più difficile da gestire.
Moises prende di mira due stereotipi sul potere: uno è la fissazione che Internet possa spiegare tutti i mutamenti avvenuti, soprattutto nella politica e negli affari; l’altro è l’ossessione per il cambio della guardia nella geopolitica: il declino di alcune nazioni (esempio gli USA) e l’ascesa di altre (soprattutto la Cina), vengono presentati come la principale tendenza che trasformerà il mondo come lo conosciamo. Il deterioramento di certe forme di potere non è causata specificamente dalle nuove tecnologie. Internet e gli altri strumenti stanno indubbiamente trasformando la politica, l’attivismo, l’economia e, come è ovvio, il potere. Troppo spesso il ruolo della rete viene frainteso o ingigantito, ma questi strumenti per avere un impatto significativo necessitano di utilizzatori, che a loro volta hanno bisogno di scopi, direzioni e motivazioni.
Il ridimensionamento e la trasformazione del potere come l’abbiamo conosciuto cosa sta provocando? Instabilità e disordine? E se questo caos presuppone ordine e logica?
Felice Presta

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La Redazione 10 Febbraio 2023 0
Senza categoria

Piove, è inverno: sindaco ma le scuole comunali in che condizioni sono?

Il tempo, cosi inClemente, ci sta dando un po’ di tregua e a prescindere da piene, esondazioni eccetera, ampiamente trattati sulla pagina Facebook di Sannio Report, -perché Noi a differenza di altri giornalai cittadini il fango lo abbiamo spalato 8 anni fa- adesso mi devo soffermare di quello che poi è accaduto nei giorni successivi e che NESSUNO ha trattato come si deve.

Cosa è successo? Beh quando pioveva abbiamo avuto notizia che il nostro sindaco girava in auto con il comandante della Polizia municipale per vedere come era la situazione in giro per la città, benissimo, per poi mandare gli stessi agenti e tecnici a verificare negli istituti scolastici comunali com’era la situazione il giorno successivo. I giornali locali ne hanno dato ampiamente notizia.

Caro sindaco, come volete che sia la situazione all’interno di plessi scolastici vetusti e carenti di qualsiasi manutenzione?  Una pittata e una distesa di guaina sui tetti non è manutenzione.

Edifici che  risultano, dalle carte comunali che noi acquisimmo anni fa, inagibili (da abbattere e ricostruire), parzialmente agibili o da dichiarare agibili dopo lavori interni strutturali che non sono mai stati fatti? Ufficio lavori pubblici giusto per chiarire dove andammo a prendere le carte.

E’ sempre colpa di quelli che hanno preceduto?

Sicuramente anche loro non è che abbiano fatto molto per gli istituti scolastici, ma voi, nonostante carte alla mano, in 7 anni di amministrazione cosa avete fatto?

Ogni volta che c’è allerta arancione si chiudono le scuole, poi si procede alle verifiche del caso -dove più volte sono state messe in evidenza infiltrazioni di acqua in questi edifici- ma in sostanza, e nonostante le dichiarazioni roboanti di un assessore ai lavori pubblici che ripete sempre lo stesso mantra -“stiamo facendo, stiamo lavorando, sono iniziati i lavori, abbiamo partecipato al bando ecc.”- l’unica scuola che è stata aperta rimane la Bosco Lucarelli a piazzale Catullo dove, e lasciatemelo dire, il merito è tutto nostro come più volte raccontato.

E nel frattempo cosa si fa? Assolutamente nulla. Adesso partono i lavori, si, ma quando, dove e, soprattutto, quando finiranno?

La Federico Torre è da abbattere e ricostruire. Benissimo, e come mai i ragazzi continuano ad entrare in una scuola presumibilmente inagibile (lo avete detto voi che era da abbattere)?

E ad ogni goccia un po’ più grossa di pioggia assistiamo a questo spettacolo, indegno per una società civile, dove parte della città si preoccupa di finire sott’acqua, e un’altra parte si preoccupa delle scuole dove vanno i loro figli.

E le scuole si chiudono, e i lavori non partono per le nuove, però assistiamo ai tanti tagli del nastro che il nostro sindaco, immancabilmente ci regala quasi ogni mese. E fa niente se ogni tanto alza la voce perché quando taglia il nastro è dispiaciuto che ci sia poca gente. Potrebbe sempre fare manifesti di richiamo al grido “abbattiamoci le mani” (canzone semisconosciuta di Jerry Scotti).

Ci siamo stancati di scrivere sempre le stesse cose e di fare denunce. La lettera del Prefetto di 3 anni fa la custodiamo nel cassetto con la risposta alla nostra nota sulle scuole che gli mandammo.

Benevento ha scelto, alle elezioni dello scorso anno, di riconfermare l’amministrazione precedente che continua come sempre. Le giostrine inclusive sono importanti ma forse la sicurezza dei plessi scolastici comunali (e provinciali) un pochino in più!

Voi che ne dite?

Felice Presta

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La Redazione 26 Gennaio 2023 0
BeneventoBlogCulturaSenza categoria

BN SCL FLM FSTVL ArTelesia – Franco Francesca nuovo direttore creativo -nuova veste e premi

La macchina del Benevento social film festival è partita. Si scaldano i motori per organizzare la quindicesima edizione del festival, che si arricchisce della presenza di un direttore creativo, che affiancherà il comitato  artistico dell’Associazione Culturale Libero Teatro, capitanati da Mariella di Libero ,Antonio di Fede ,Rosa Barone  e il fondatore  del festival Francesco Tomasiello

L’eco designer  Franco Francesca sarà il “deus ex machina” della prossima edizione, lavorando come creative director in supporto agli organizzatori dell’evento, occupandosi in prima persona degli aspetti relativi alla parte visiva, partendo dalla veste grafica fino alla scelta del premio 2023, per rinnovare e rappresentare appieno l’identità del tema scelto dalla rassegna cinematografica, che quest’anno è Il Viaggio. Il direttore creativo, inoltre, si occuperà di sviluppare eventi collaterali, strategie di marketing e campagne di rebranding, esplorando in tutte le sue forme il concetto di identità e diversità, inteso come integrazione ed inclusione, concetti chiave anche dell’Agenda 2030: best practice per lo sviluppo sostenibile.

Il concorso internazionale del Cinema Sociale per registi emergenti e professionisti, Scuole e Università, evento promosso dall’Associazione Culturale Libero Teatro di Benevento, ha diffuso il nuovo bando, che si articola in quattro sezioni: Filmmaker e DivAbili; School and University, Anteprime nazionali ed internazionali e Film di animazione. Questi i temi:

  • IO MI APPARTENGO – rispetto della propria individualità, saper essere oltre ogni apparire, coltivare la propria libertà contro ogni dipendenza.
  • INTEGRAZIONE – rispetto dell’identità etnica e culturale contro ogni forma di discriminazione: beyond cultural stereotypes.
  • SUPERFICI PROFONDE – scoperta e valorizzazione del patrimonio storico-artistico dei territori.
  • CORTOMETRAGGIO – Storie di agricoltura sostenibile.
  • Nella sezione DivAbili, concorso esclusivo del Social Film Festival ArTelesia, è possibile iscrivere lavori realizzati da registi diversamente abili o che abbiano coinvolto attori diversamente abili che non devono necessariamente incentrarsi sul tema della disabilità.

Temi della sezione School and University sono:

  • L’OROLOGIO SULLE 20.30: buone pratiche per lo sviluppo sostenibile.
  • INTEGRAZIONE: rispetto dell’identità etnica e culturale contro ogni forma di discriminazione: beyond cultural stereotypes.
  • CINELIBRIAMOCI: lavori ispirati ad opere della narrativa italiana e mondiale.

Particolare attenzione sarà riservata alle opere realizzate dagli studenti con dispositivi mobili – smartphone, tablet, action camera, droni. Per tutte le categorie è comunque previsto il tema libero. Il termine ultimo per l’invio dei lavori è il 28 febbraio 2023.

Tra le novità di questa edizione, nasce il Premio Green Carpet, che renderà il festival sociale di Benevento il primo al mondo a poter vantare questa nuova sezione! In questa rinnovata prospettiva, la quindicesima edizione del Social Film Festival ripercorrerà la storia dei successi raggiunti finora, puntando su una maggiore visibilità nazionale ed internazionale, grazie agli ospiti, alle tematiche e alle nuove strategie di comunicazione, puntando i riflettori su una rassegna cinematografica made in Sannio che appare una perla rara, da tutelare e sostenere con tutti i mezzi possibili. #BSFF2023

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La Redazione 5 Gennaio 2023 0
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