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Cultura
Home Cultura Pagina 14

Category: Cultura

BeneventoCultura

Un ponte fatiscente

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“L’ossa del corpo mio sarieno ancora
In co del ponte, presso a Benevento,
Sotto la guardia della grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
Di fuor dal regno, quasi lungo il Verde,
Dov’ei le trasmutò a lume spento”.

Così Dante nel III canto del Purgatorio ricorda il luogo in cui fu seppellito il Principe Manfredi di Svevia, all’indomani della sua morte avvenuta durante la battaglia del 26 Febbraio 1266 contro Carlo D’ Angiò. Ma chi costruì quel ponte che Dante menziona? Costituito da tre arcate, rimaneggiato nel corso dei secoli con restauri che ne hanno determinato l’aspetto attuale, Ponte Valentino si data molto probabilmente all’ età traianea, la sua costruzione sarebbe cioè in relazione alla creazione della Via Appia Traianea, inaugurata nell’ anno 109 d.C.
I lavori di restauro eseguiti durante le diverse epoche hanno permesso fino ad oggi il mantenimento in vita di un manufatto appartenente ad età romana, ma sembrano oggi vani per via dal degrado ambientale e culturale che caratterizza l’ area e di cui gli organi governativi sono a piena conoscenza, ma di cui, come sempre accade, se ne dimenticano troppo in fretta.
Calpestare una via tanto battuta (l’Appia Traianea), percorrere un ponte dalle lontane origini, è emozionante; la vegetazione affiora prorompente ai bordi e occulta la struttura architettonica; i parapetti non esistono più in diversi punti, così come le loro merlature; solo ciottoli intramezzati da un filare di erba incolta lungo l’ intera lunghezza del ponte, accompagna i miei passi. Ma ecco che alla fine del camminamento del manufatto architettonico il cuore si stringe in una morsa di dolore per il danno provocato e per l’ aberrante apparizione che si profila ai miei occhi: s’ innesta qui, calpestando questi ultimi metri di storia, un moderno aborto di ponte in cemento e ferro, causa probabilmente della caduta di una parte della sponda sinistra del monumento antico, ma anche del mutamento del corso del Fiume Calore che un tempo, per sua natura e non per volontà umana, correva sotto le antiche vestigia. Oggi il fiume corre invece ad un passo dal suo antico percorso, ma forse l’ uomo non ha potuto combattere la potenza della natura se un rivolo d’ acqua scorre di nuovo e ancora rumoroso sotto l’ arcata centrale del ponte a testimoniare l’ oltraggiata realtà storica che riemerge prepotente in quella piccola oasi di salici che ombreggiavano il cammino del fiume e dalla cima del ponte risulta tuttora visibile. Ma scendendo, oltrepassando le sponde sino a raggiungere le grandi arcate, il tempo sembra fermarsi constatando che l’ uomo non può distruggere tutto. Eppure questo non è riuscito ad affascinare la negletta mano distruttrice dell’ oggi che ha realizzato, in una zona di interesse storico, padiglioni industriali e industrie che certo non hanno come interesse primordiale la manutenzione di un bene che forse danneggia anche i loro “movimenti”.

Ma la beffa peggiore sta in quel ponte costruito a modello della struttura romana, rispecchiandone i principi architettonico – ingegneristici, ma cambiando solo i materiali per la messa in opera. A questo punto mi chiedo chi sia il responsabile di tale misfatto. Consorzio Asi, Amministrazione Provinciale, Amministrazione Comunale, Autorità di Bacino e Soprintendenza ai Beni Archeologici, un lungo elenco di colpevoli del degrado culturale. Quale di questi enti non è al corrente della situazione in cui vessa quel Ponte, costruito da Traiano e cantato poi da Dante? Non ci sono scusanti per giustificare un simile scempio. Le nostre amministrazioni sono sempre troppo prese dai loro affari politici, economici e sempre meno si ricordano che se noi siamo qui è solo perché qualcuno prima di noi ha vissuto, lottato per le nostre terre. Oggi tutti parlano di cultura come elemento da cui partire e ripartire per il rilancio territoriale e la promozione turistica, quale elemento fondante in un clima di crisi economica da cui poter trarne beneficio per una rinascita e riappropriazione soprattutto della propria identità culturale, politica ed economica! Dolci e belle parole che ammaliano solo l’ occhio innocente di chi crede ancora alle favole, ma noi a questo non crediamo più. E allora cari politici, esponenti della “cultura”, Voi che amate sporcarvi le mani per beneficio personale, provate a immergerle nel fango della storia e forse stavolta vi si puliranno davvero, senza aver bisogno di ripulirvi.
Grazie a chi nel corso degli anni ha contribuito a rovinare la nostra identità culturale.

Afrodite del Sannio

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La Redazione 10 Luglio 2014 0
BeneventoCultura

C’era una volta una chiesa, poi un cimitero … e oggi?

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Il teatro da sempre accompagna la storia dell’uomo e da sempre autori e interpreti utilizzano la loro arte come strumento di denuncia politica, sociale, morale e storica, e Benevento che da anni accoglie uno dei Festival Teatrali più prestigiosi del nostro paese, non poteva certo mancare all’appuntamento. Per due anni di seguito infatti, quale luogo per gli incontri della rassegna “Raccontami Benevento” è stato scelto il “Cimitero dei Morticelli”.
Vi è mai capitato di sentirne parlare? Beh, a me si e girovagando nei pressi del Teatro Romano può capitare d’imbattersi nella piazzetta dei “Morticelli”, poco distante dalla scuola San Filippo Neri, dove tra una casa in distruzione e un’altra da poco ristrutturata si scorgono i pannelli del “Fai” (Fondo Ambiente Italiano – a cui per dieci anni è affidato il recupero della struttura), poggianti su strutture metalliche che indicano e delimitano l’area di accesso alla piccola Chiesa di San Lupo, quanto resta cioè di quella che un tempo era un’antica Abbazia Benedettina, poi cimitero dei bambini, da cui il nome “Cimitero dei Morticelli”.
In mezzo alla piazzetta si eleva un’esile colonna di granito grigio, sormontata da una croce, a ricordo dalla sacralità del luogo oggi quasi sconosciuto alla maggior parte dei beneventani. 10419800_682037418529927_136801692_n
Ciò che resta della Chiesa di S. Lupo è la facciata con un cancello che chiude il luogo sacro, ma non limita ai curiosi la possibilità di scorgere all’interno, subito dopo l’ingresso, una vasta area a cielo aperto di cui sarebbe difficile l’interpretazione, se non avessimo scarne notizie storiche a riguardo.
Nell’anno 837 d.C. venne qui fondato un grande Monastero Benedettino con la Chiesa intitolata a S. Lupo e Zosimo. Caduta in disuso durante il XVI sec., la struttura fu adibita a spazio dove seppellire i bambini, anche morti prematuramente, e perciò detto Cimitero dei Morticelli. L’area fu oggetto poi dei bombardamenti che colpirono la città durante la seconda guerra mondiale e che negli anni ’60 ha portato all’abbattimento della Chiesa e del Cimitero e la relativa traslazione dei corpi nel Cimitero comunale. Oggi non restano che poche strutture murarie a ricordo di un passato che forse in questi giorni sta tornando alla luce, visto che l’area sembra interessata da indagini archeologiche, come sembrano mostrare “gli strumenti degli addetti ai lavori” , che speriamo portino ben presto ad una maggiore conoscenza del sito, alla scoperta di entusiasmanti verità e soprattutto ad una sua futura fruibilità. Si, perché ciò che ci rincuora, nonostante lo stato di abbandono in cui per anni ha vessato l’Abbazia è che, dopo questa fase di studio che permetterà di far luce sui periodi e vicende storiche succedutesi all’interno del Cimitero, presto per questo “sito” si trovi una più giusta collocazione all’interno della vita cittadina, come d’altra parte si è tentato di fare, destinando lo stesso a luogo per brevi appuntamenti teatrali durante le ultime due stagioni di Benevento Città Spettacolo.
Ci auguriamo pertanto di sentire, a breve tempo, correre voce sull’apertura di un nuovo (anche se vecchio) sito archeologico, destinato alla conoscenza degli addetti ai lavori, alla città e ai suoi turisti.

Afrodite del Sannio

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La Redazione 30 Maggio 2014 0
BeneventoCultura

Quando la musica incontra l’archeologia

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L’altra sera grazie all’iniziativa “sarà giorno tutta la notte” abbiamo assistito all’apertura notturna dei musei, che sono rimasti nella disponibilità dei cittadini dalle 20.00 alle 24.00 con un nonstop tutto in serale. Sicuramente particolare quella che ha visto, nella location del teatro romano di Benevento, l’unione tra la musica e l’archeologia. Già in passato il teatro è stato sede di rappresentazioni teatrali e liriche, ma mai lo si era valorizzato in modo cosi spettacolare.

Posizionati lungo il percorso degli anelli, ad accompagnare il visitatore, di volta in volta, le note delle arpe, delle chitarre, dei flauti, del pianoforte, con musica sapientemente scelta. Il direttore del conser-vatorio Maria Gabriella Della Sala e’ riuscita, con l’impegno dei suoi alunni, a rendere una serata cultu-rale un momento di relax, dove avvolti dalle note, si è andati a passeggio nella storia.
Unica nota stonata l’assenza ingiustificata della sovrintendenza che, tranne per gli addetti alla bigliet-teria, non ha fornito alcun tipo di supporto. Ci sarebbe piaciuto essere accolti da personale competente e accompagnati nel giro da una guida turistica. Invece niente.

Capitolo a parte il San Felice, dove era esposto Ciro, il piccolo fossile di dinosauro ritrovato a Pietraroia. Dopo ben 17 anni il fossile è tornato in esposizione a Benevento. Qui la sovrintendenza ha messo a disposizione degli amanti del genere paleontologico del personale che ci ha accompagnato e guidato lungo il percorso. Tra curiosi e amanti dell’arte tante sono state le persone che, nonostante il tempo non proprio clemente, hanno deciso di approfittare dell’apertura serale. Auspichiamo per il prossimo anno una organizzazione migliore da parte della sovrintendenza.

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La Redazione 19 Maggio 2014 0
Cultura

Usiamo il “PoliPalo”

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(clicca sulle immagini per ingrandirle)

 

Le città sono piene di pali usati come cartelli, indicazioni stradali, semafori, telecamere che molto spesso hanno un impatto visivo che provoca una sensazione di disordine. Una selva di segni verticali che punteggia i marciapiedi e si rivolgono soprattutto agli automobilisti.

Nel 2009 al Mini Design Award, concorso svoltosi a Milano, l’architetto Antigone Acconci, ha illustrato il progetto del “PoliPalo”. In cosa consiste?

L’idea è quella di trasformare delle strutture molto presenti nelle città, i pali appunto, in punti di riferimento per una serie di funzioni. Si tratta di un elemento di arredo urbano utile ed adattabile. E’ un tubolare piegato che forma un anello da raccordare al palo stesso e che, in base alle dimensioni, può ospitare cestini, fioriere, portacenere e informazioni, ma anche diventare una rastrelliera per biciclette.

Il poliPALO è un elemento universale che si adatta a tutti i tipi di palo e lo trasforma in un piccolo polo di “microservizi”. Un’idea semplice e innovativa, perché non sperimentarla?

 

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La Redazione 27 Aprile 2014 0
Cultura

Il populismo. Una risposta a chi pensa di insultarci

 

“Altri dimostrino pure che noi abbiamo veduto male, noi vogliamo dire ciò che crediamo di vedere” (Friedrich Nietzsche)

La crisi che oggi scuote le democrazie, costringendole ad un approfondito esame di coscienza, ha origine dallo smarrimento del significato originario di questa formula politica: potere del popolo, di un’entità organica e consapevole costituita non di semplici individui, ma di cittadini attivi. Nel primo Novecento Vilfredo Pareto, scrisse: “La società appare come una massa eterogenea e con una gerarchia dei suoi componenti. Tale gerarchia non manca mai (…)”.
Pareto, Mosca, Michels, Weber e altri, individuano tutti la presenza di minoranze attive e organizzate nella società, anche se sono su posizioni differenti in merito alla loro formazione. Pareto parla di élites, Mosca utilizza il termine di “classe”, Michels quello di “oligarchia”. Nel nostro discorso queste parole sono intercambiabili, la cifra espressiva di una società si valuta dalle élites che genera, in particolare quelle politiche, economiche e culturali.
Dire che la democrazia è un regime incompatibile con la nozione di élite è sbagliato, perché è uno strumento particolarmente sicuro per individuare un’élite e promuoverla. Al popolo tocca la grande responsabilità di selezionare. Fino a quando la classe politica orienta la propria azione in modo positivo, rispettando la volontà popolare o cercando di spiegare alla cittadinanza l’importanza di alcune scelte, sarà sempre in qualche modo legittimata.
Il problema sorge quando una classe politica mediocre e corrotta, tende ad ingannare utilizzando argomenti democratici, trincerandosi dietro la retorica del “consenso ricevuto” (anche se in molti casi estorto). L’élite a quel punto, rompe il rapporto fiduciario con il popolo che intuisce la frode. Di fronte al tradimento ci sono due possibilità: rassegnarsi oppure innescare una reazione.

Il termine populismo ricorre nel lessico del discorso politico con toni dispregiativi, un insulto camuffato da analisi raffinata spesso, utile a chi ha pochi argomenti a disposizione.
Alexis de Tocqueville, scriveva ne l’Antico Regime e la Rivoluzione: “Come commuovere un popolo disincantato come il nostro, senza farlo tremare per pericoli immaginari?”.
La classe politico-mediatica escogita pericoli immaginari, incluso il populismo, per distrarre dai pericoli veri e dalla proprie miserie. Di solito il populismo si manifesta di fronte ad una crisi di legittimità di un intero sistema, è una reazione contro una classe dirigente considerata distaccata dalla realtà quotidiana e che toglie al popolo ogni ruolo politico.
Per fronteggiare questa crisi di rappresentanza, il populismo rifiuta una serie di mediazioni unitili, si scaglia contro quelle istituzioni ingessate e non risparmia nessuno: dai sindacati al potere finanziario. E’ una ribellione che si pone fuori da logiche democratiche per recuperare l’essenza concreta della democrazia. Più o meno consapevolmente, mostra l’insufficienza della democrazia liberale, misurandola sul terreno delle cose pratiche.

Il populismo ha virtù e vizi e la sua vena anti-elitista è incompatibile con tutti i sistemi autoritari ai quali viene maliziosamente assimilato. Chi lo critica, pone l’accento sulla semplificazione eccessiva delle questioni pubbliche complicate, ridotte a caricature adatte a suscitare istinti irrazionali. Quante volte si sente dire “il suo è un argomento populista”? Serve solo a troncare il discorso. In realtà questo modo di presentare e concepire il populismo denota un’immagine dispregiativa delle moltitudini: il “popolo” è spesso disinformato, disinteressato al bene comune, attratto dalle semplificazioni, estraneo a quella razionalità che impone analisi approfondite a questioni complesse ed è affetto da pigrizia cognitiva.
Il popolo è buono e consapevole solo quando si allinea al pensiero della classe al potere, solo in quel caso fa “la scelta giusta” e se proprio non si riesce a raddrizzarlo, è opportuna una svolta tecnocratica. Questa interpretazione del significato politico del fenomeno populista è inadeguata e a tratti ipocrita.

Il populismo è una tendenza, non un progetto politico organico, non è privo di difetti e può combinarsi a ogni ideologia: nazionalista, ultraliberale, populismo di sinistra, operaista. Il populismo può essere reazionario, solidarista, xenofobo, ha un aspetto camaleontico e come tale, i suoi dispregiatori possono applicarlo a tutto. Di qui l’eccessivo uso polemico che scoraggia tipologie e definizioni.
Il difetto maggiore del populismo è il rischio di trasformarsi in un qualunquismo brontolone, o quello di diventare preda di tribuni improvvisati col sorriso stampato o l’atteggiamento truce, che sfruttano rancori, frustrazioni alla ricerca di un alibi senza mai attaccare – beninteso – la logica del Capitale. Altro difetto del populismo è l’eccessivo ricorso agli appelli o una certa ingenuità verso presunte “virtù innate” del popolo.
Criticabile quanto si vuole, è pur sempre una reazione del “basso”, verso “l’alto”, di ampi settori della popolazione che si rivoltano contro l’élites traditrici che confondono l’esperienza di governo con il godimento dei privilegi. Mostra le disfunzioni di un sistema che delude le attese, non sa mantenere un minimo di legame comunitario e dove un miscuglio di ideologie globaliste e prepotenza delle forze economiche, crea disagio e spinge i cittadini a scansare le urne perché tanto non si aspettano nulla. Il populismo rifiuta una democrazia rappresentativa, che non rappresenta nulla e dove la sovranità è confiscata e ricorda che in democrazia il popolo è l’unico depositario della sovranità.

Gli attacchi denigratori al “populismo”, servono a disarmare il conflitto politico e a diluirlo per conservare degli avanzi di forme politiche, “destra” e “sinistra” che da luoghi geometrici dello spazio politico, sono diventati “luogo comune” di una nuova classe dirigente, venale e corrotta, ansiosa – dice Annie Collovald – di “delegittimare chi nel popolo vede la causa da difendere e di favorire chi nel popolo vede il problema da risolvere”.
Come forma politica il populismo è un sentimento comunitarista, distante dalla “grande società”, poco solidale con lo Stato e tantomeno con il Mercato perché rifiuta statalismo e individualismo liberale. Esso ha un futuro tanto più lungo quanto è più corto quello della politica istituzionale. Il populismo se bene articolato, offre un’alternativa credibile all’egemonia neoliberale fondata sulla sola politica rappresentativa. Può rinvigorire la politica locale e avere una funzione liberatoria. Così ritrova il ruolo originario: servire la causa del popolo. C’è un espressione di Moeller van den Bruck molto suggestiva: “La democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino”.

Ogni dibattito sul futuro delle forme di convivenza politica deve muovere da una dimensione antropologica per giungere, dopo una serie di passaggi alla dimensione istituzionale. Il populismo è un sintomo di una malattia: l’incapacità della democrazia liberale di fondare una nuova dimensione politica (senso di appartenenza collettivo), se non vuol essere un’irrealizzabile utopia. Ciò presuppone un lavoro “metapolitico” per affermare una cultura e un ordinamento capaci di esprimere in rapporti comunitari e non soltanto economici. Solo così si può spezzare la “tenaglia” che preme e serra la politica, accerchiata tra fede economica e fede religiosa, tra “tecno-crazia” e “clero-crazia”, le due potenze che almeno in Italia, riempiono il vuoto lasciato dalle ideologie.

Vincenzo B.

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La Redazione 1 Aprile 2014 0
BeneventoCultura

Vogliamo la soprintendenza.


Terra di fascino e cultura, Benevento non è da meno a nessuna città italiana. Già votata al culto di Iside, nei secoli è divenuta una città sannitica, romana, longobarda e infine pontificia. Vanta un cospicuo patrimonio storico-artistico-architettonico e un interessante patrimonio archeologico.
Il sito di Santa Sofia, con la sua chiesa edificata nel 760 dal duca longobardo Arechi II è entrata a far parte del patrimonio mondiale UNESCO nel 2011. Da troppi anni questa considerevole ricchezza, concentrata e stratificata in un centro privilegiato dalla storia è però gestita da persone esterne al territorio, che hanno poco a cuore le sorti del nostro territorio e la valorizzazione di tale patrimonio. E’ giunto il momento per Benevento di avere una propria soprintendenza.

Allo stato, le quattro province campane di Benevento, Caserta, Avellino e Salerno, sono assoggettate ad una unica direzione, quella di Salerno, per quanto concerne i beni archeologici. Benevento è poi accorpata a Caserta per i beni culturali. A gennaio di quest’anno si è avviato un ammodernamento dell’intero sistema in tutta la Campania. Sull’onda di questo riassetto chiediamo che Benevento possa essere gestita in modo autonomo per entrambe le soprintendenze.

La città deve essere messa in condizioni di poter riattivare il circuito economico con una politica moderna per migliorare la gestione di tutto il comparto culturale per attrarre i turisti.
La sede attuale delle due soprintendenze è ubicata presso l’ex convento di San Felice che, secondo lo storiografo beneventano Alfonso De Blasio (1597-1656), sarebbe stato realizzato sul sito di un antico tempio pagano dedicato a Cerere. Rimodernato da poco, ospita tutti gli uffici e il personale addetto alle soprintendenze. Personale fortemente motivato e altamente qualificato, che conosce approfonditamente l’intero patrimonio culturale e archeologico di tutto il Sannio e le relative problematiche, condividendo il diretto contatto quotidiano con tali bellezze.

Lo scorso 2 marzo, nel corso dell’incontro organizzato dal Movimento Cinque Stelle, ci è stata data la possibilità di presentare un’istanza ai parlamentari del movimento, proprio sulla questione della soprintendenza. Dobbiamo riportare i cittadini ad essere “padroni” del patrimonio archeologico e culturale che i nostri avi ci hanno lasciato in eredità. Dobbiamo ricominciare a gestire “in proprio” anche i fondi che la Regione, lo Stato, la Comunità Europea e l’Unesco ci mettono costantemente a disposizione per tutelare tale patrimonio. La situazione attuale vede un lento decadimento e noi dobbiamo fare qualcosa per arrestare questo declino.

Lady Oscar

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La Redazione 15 Marzo 2014 0
BeneventoCultura

La storia di Cellarulo

Parco Cellarulo nel 2010 

Le foto dopo la devastazione della natura e dell’uomo.


un visitatore occasionale

Chi non ha mai sentito parlare di Cellarulo?
Ultimamente questo nome risuona per motivi musicali non certo degni di nota, eppure capita che se ne parli! Ma dietro questo nome un po’ strano si cela una parte fondamentale della nostra identità beneventana.

Dobbiamo fare un salto nel tempo. Anno 1991. Grazie al Comitato “Giù le mani” composto da Gianni Dell’Aquila, dall’avv. Ciccio Romano, ideatore e fondatore del Comitato al quale aderirono tra gli altri Vincenzo Fioretti, Enzo Gravina, Antonio Bruno Romano, Franco Bove, Nando Paribello, Paola Caruso, Giuseppe Lamparelli, Marcello Stefanucci, Carmine Cantelmo, Marino Raffio e Gabriele Corona si riuscì ad impedire al Comune con il benestare della soprintendenza, la costruzione di una strada nella zona.

Il 15 luglio 2010 veniva inaugurato il Parco Cellarulo con i lavori costati 3.500.000 euro ed ora oggetto delle “attenzioni” della magistratura, nell’ambito dell’inchiesta “Mani sulla città”. 
(clicca qui) Un parco di 50 ettari costruito in due anni dall’amministrazione Pepe durante il suo primo mandato.
Nell’ottobre dello stesso anno il Parco si dovette chiudere a causa dell’inondazione del fiume che danneggiò gravemente le strutture. Adesso si sta intervenendo nuovamente per evitare altri allagamenti della zona, ma anche il cantiere è stato visitato dai vandali che hanno distrutto quel poco rimasto in piedi.

CENNI STORICI

Ubicato nella parte Nord-Ovest della città, alla confluenza dei fiumi Sabato e Calore, il toponimo Cellarulo è documentato da Iscla de Cellarulo cum posta (postazione di pesca lungo il fiume Calore) e da una Vineam de Cellarulo, testimonianze che sembrano rimandare alla funzione di Cellarium per lo stivaggio di merci attribuita ai resti monumentali del complesso detto dei Santi Quaranta, non poco lontano. Cellarulo quindi, già nel nome presenta la sua caratteristica di luogo legato alla produzione e al commercio. Ma cerchiamo di ripercorrerne la storia sulla base delle recenti indagini archeologiche e studi, sperando di rendere più familiare e interessante un luogo tanto ‘rinomato’, ma poco conosciuto.

Anche se sembra provato l’uso funerario dell’ area prima della costruzione di impianti produttivi, il materiale archeologico rinvenuto sembra documentare la funzione urbana espletata da Cellarulo almeno dal III sec.a.C. fino al IV sec.d.C: molto probabilmente qui erano presenti impianti produttivi, ubicati in ambito periferico, lungo il fiume, per il necessario rifornimento di acqua, perché la presenza di un banco d’argilla garantiva l’approvvigionamento della materia prima, e per poter disporre della via di trasporto fluviale comprovata dal rinvenimento lungo la riva occidentale del Calore di una struttura lineare in conglomerato cementizio entro blocchi di calcare e tufo, interpretabile come la banchina di un porto fluviale destinato allo svolgimento di attività commerciali. Insieme alle fornaci poi sono stati individuati ambienti di servizio coperti da semplici strutture in legno e spazi recintati con funzione di discarica degli scarti di lavorazione. Il rinvenimento di una grande quantità di ceramica a vernice nera databile al III sec.a.C. e di ceramica comune, ha contribuito a datare al tempo della deduzione della colonia latina, 268 a.C., l’avvio dell’attività produttiva. 

La fase di massima espansione del quartiere potrebbe coincidere con un periodo che va dal 42 a.C. e che copre tutta l’ età Giulio-Claudia. Allo stesso arco di tempo si fa risalire la lastricatura della preesistente strada, identificabile con il tratto urbano della via dell’ alto Sannio che raggiungeva Cellarulo attraverso il Pons Maior , distrutto non prima della tarda età longobarda e definito come Ponte Fratto. A questa fase che vede il quartiere caratterizzarsi per la sua destinazione strettamente produttiva segue, durante il II sec.d.C., una fase di urbanizzazione dello stesso, con la costruzione di nuclei edilizi a carattere commerciale o abitativo che vedranno poi il successivo abbandono dell’area. 

Cellarulo quindi sembra rientrare pienamente nel piano di espansione della città che nella fase di riassetto e monumentalizzazione, conclusasi nel II sec.d.C., potrebbe avere incluso nel suo perimetro anche il quartiere destinato alle attività produttive. La frequentazione riprenderà durante il IV sec.d.C. e alto medioevo, ma stavolta sarà legata a pratiche funerarie che qui si svolgevano, e ad esigenze di rimpiego di materiali da costruzione. 

L’abbandono di Cellarulo così come dell’anfiteatro, non molto distante, appare speculare all’ avvio nel IV e V sec.d.C. dell’ampio processo di ristrutturazione del centro che si concretò nel dimezzamento della superficie urbana e nell’arroccamento collinare a scopo difensivo configurato dalla cinta ristretta che racchiuse il colle della guardia.

Nell’area B di Cellarulo inoltre, è stata rinvenuta una concentrazione materiale fittile, struttivo e di rivestimento parietale e non, relativo a un ninfeo e a pavimenti in opus sectile e ciò indica la presenza di più di dieci residenze di rilievo in area urbana o suburbana la cui origine va posta nella prima età imperiale. Pochi frammenti di ceramica testimoniano una frequentazione del settore nel IV –III sec.a.C. 
Cellarulo dunque era il quartiere della nostra città destinato alla produzione e al commercio durante l’arco temporale che va dal III sec.a.C. al IV sec.d.C.

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La Redazione 28 Gennaio 2014 0
BeneventoCultura

Liberate l’Arco di Traiano


Correva l’anno 114 d.C. quando il Senato di Roma conferì all’Imperatore Marco Ulpio Traiano l’appellativo di Optimus Princeps, in riferimento al modo in cui lo stato romano fu organizzato e retto, con fredda disciplina e rigida onestà ma anche aperta intelligenza, e fu difeso e ampliato sino alla sua massima estensione da questo imperatore. Nello stesso anno, il Senato decretò l’erezione di uno degli archi trionfali più belli che la Storia ci ha lasciato, comunemente conosciuto come l’Arco di Traiano a Benevento. Venne innalzato tra il 114 e il 117 d.C. in occasione dell’ apertura della Via Traiana (iniziata nel 109 d.C.), una variante della Via Appia (chiamata anche Regina Viarum), che da Benevento conduceva a Brindisi, abbreviando così il percorso precedente. Si, perché la Via Appia era quella strada che collegava la città di Roma con l’Oriente, perché Brindisi era lo snodo dei collegamenti tra l’Oriente con l’Occidente.
Da qui dunque l’appellativo di Regina Viarum. E di non poco conto fu l’intuizione dell’Imperatore Traiano che fece costruire sua pecunia viam et pontes quel percorso alternativo, la Via Appia Traianea, che abbreviava di giorni il vecchio tragitto. L’inizio della nuova strada, che partiva proprio da Benevento e passava per il Ponte S. Nicola e Ponte Valentino, veniva segnato con l’erezione del più importante e suggestivo tra gli archi onorari della romanità costituendo, sia per le armoniose proporzioni che per la bellezza e varietà dei rilievi distribuiti sulle due facciate, una delle opere più rappresentative della scultura romana del II sec. d.C. nel mondo, superando per numero di sculture quelli dedicati a Tito, Settimio Severo e Costantino. Nei suoi anni di saggio governo il Princeps aveva ampliato e rafforzato i confini dell’Impero con le sue vittoriose campagne daciche, ma con una saggia politica amministrativa, economica e sociale, ne aveva anche notevolmente accresciuta la prosperità, e la sintesi di questa grande opera è rievocata nei rilievi dell’Arco che raffigurano, quelli rivolti verso la città, cioè Via Traiano, scene di pace, mentre quelli rivolti verso l’allora campagna, ovvero l’attuale Via S. Pasquale, scene belliche della campagna militare condotta in Dacia, ritratte anche sulla più famosa Colonna Traianea a Roma. Nei rilievi del passaggio del fornice invece è raffigurato e celebrato un tipico provvedimento messo in atto dall’Imperatore, ovvero la Constitutio Alimentaria, che consisteva in prestiti che lo Stato di Roma faceva a piccoli proprietari agricoli; gli interessi incassati per il prestito venivano destinati a sussidi per l’istruzione dei figli degli stessi agricoltori. Nel rilievo appaiono dinanzi all’Imperatore e a figure di personificazioni simboliche, i coloni con i loro bambini, maschi e femmine, tenuti per mano o issati sulle spalle. E’ questa una composizione del tutto nuova nella sua tematica. In essa per la prima volta compaiono, in un monumento ufficiale, le classi subalterne.
L’Arco molto probabilmente è opera di Apollodoro di Damasco, architetto e ingegnere militare di Traiano; tutte le sue opere infatti presentano una decorazione di scultorea eccezionalmente ricca, tanto che le strutture architettoniche appaiono quasi semplicemente sostegni o cornici delle sculture. In età tardo-antica l’Arco fu inglobato nella cinta muraria che i Longobardi consolidarono subito dopo aver occupato Benevento tra il 570 e il 571 e prese il nome di “Porta Aurea” e come tale fu usato nel corso dei secoli. Quando però nel 1849 giunse a Benevento Pio IX, colpito dalla bellezza e maestosità del monumento, questi ordinò l’ abbattimento delle mura che inglobavano l’Arco, liberandolo e donandogli quella identità monumentale che ad oggi lo accompagna. Nel 1935 inoltre, quella che oggi è possibile ammirare quasi all’ingresso della Rocca dei Rettori, la Statua raffigurante l’Imperatore, Mussolini la fece arrivare a Benevento per porla dinanzi all’Arco. E’ una copia in bronzo della statua marmorea che sormontava la Colonna Traianea a Roma.

Lo scempio attuale …

foto tratta da www.gazzettabenevento.it
Oggi, anno 2014, ricorre il millenovecentesimo anniversario di un monumento simbolo della nostra romanità e noi lo festeggiamo con una bella “capannina” che da quasi un anno gli offre riparo, sicuro?
Non so a quanti è mai capitato di fare un tour archeologico o più semplicemente gite o visite a siti archeologici, bene, in quanti luoghi è visibile uno scempio come il nostro?

Mi spiego, quanti archi l’antichità ci ha restituito in così perfetta forma e che siamo poi costretti a non poterli ammirare perché inglobati, non più in una cinta muraria longobarda, ma in una quasi gabbia di ferro? Se facciamo un tour mondiale forse rischiamo di salire sul podio, o di vincere addirittura l’oro per l’incapacità di restituire dignità e identità alla storia di 1900 anni fa. E perché? Bella domanda! Cosa rispondono a riguardo coloro posti a “tutela dei beni archeologici e culturali”? Perché i beneventani sono costretti a “non vedere” l’arco? Tutte le volte che per un motivo o un altro mi trovo ad accompagnare amici o persone desiderose di conoscere la nostra città, sinceramente mi vergogno di dire “ecco il famoso Arco di Traiano” e sentire immediatamente dopo la domanda “e perché hanno costruito la capanna?”. Ometto qui la risposta che fornisco puntualmente, perché ripeterei una frase che credo pronuncino tutti e invece preferisco porre una domanda: durante i miei anni di studi mi è stato insegnato, da grandi esperti di Archeologia, che ogni restauro messo in atto su un manufatto antico, prevede la collaborazione di archeologi, storici dell’arte e restauratori veri e propri, e allora mi chiedo se una tale collaborazione è mai stata posta in essere per il nostro Arco! Credo che la risposta sia nei progetti e restauri autorizzati dalla Soprintendenza e che fino ad oggi hanno dato come risultato continue infiltrazioni d’acqua che stanno mettendo a dura prova il nostro bene e come ultimo risultato una struttura di ferro che dovrebbe riparare l’arco dalle intemperie. Dovrebbe, perché l’impalcatura non è certo chiusa e l’acqua, il vento e altri fattori atmosferici si divertono ancora a stuzzicare il gigante che riposa! Quindi credo sia lecito chiedere chi ha autorizzato un tale progetto, chi lo ha realizzato e chi ne ha tratto giovamento!

L’Optimus Princeps saprebbe già darmi la risposta, io invece lancio la sfida e, se riuscirete quantomeno ad essere ascoltati dall’Ente preposto a tutela del patrimonio storico-artistico, beh…sarete già a buon punto. Buona ricerca a tutti. Non andate troppo lontano però, perché la verità è sempre più vicina di quanto crediamo!

Afrodite del Sannio

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La Redazione 20 Gennaio 2014 0
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