Zaino in spalla e scarpe resistenti, così Giuseppe Tucci si avventurava sul massiccio montuoso della Majella prima di ogni viaggio che l’avrebbe portato in Asia centrale, percorrendo quelle terre che secoli prima avevano attraversato le truppe multietniche di Alessandro Magno. Era nato a Macerata il 5 giugno del 1894, in una famiglia cattolica, ma nel 1935 divenne buddista dopo il folgorante incontro con un abate di un monastero nel Tibet meridionale. A descrivere l’episodio, con toni romanzeschi è Geminello Alvi, in un brano del suo libro Uomini del Novecento: «Il primo luglio incontrarono il giovane abate d’un monastero buddhista, vestito di rosso e appena uscito da un eremo dove aveva trascorso tre anni, tre mesi e tre giorni, meditando. Tucci gli chiese di sperimentare le liturgie sottili che sommuovono l’Io, liberando attese stupefatte e pavide: l’ottenne. E vide che quanto gli uomini chiamano “Io” non è che una crosta sottile in bilico dentro un cosmo inatteso e infinito».
Tucci è stato un orientalista, poliglotta, storico delle religioni, autore di circa 360 pubblicazioni tra articoli scientifici, libri e testi divulgativi. Dopo la laurea in lettere nel 1919, presso l’Università di Roma, si dedicò agli studi orientali tra il 1925 e il 1930, quando ebbe l’opportunità di partecipare a una missione culturale in India come docente alle Università di Shantiniketan e di Calcutta. Nominato accademico d’Italia nel 1929, nel novembre dell’anno successivo fu chiamato a occupare la cattedra di Lingua e letteratura cinese a Napoli e nel 1932 passò alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Roma, dove fu professore ordinario fino al 1969. Tucci non era il classico intellettuale che trascorreva la vita in biblioteca, ebbe tre mogli, due delle quali lo accompagnarono in alcuni viaggi. Dal 1929 al 1948 compì otto spedizioni scientifiche in Tibet e dal 1950 al 1954 sei in Nepal. Nel 1955 avviò delle spedizioni archeologiche nella valle dello swat in Pakistan, nel 1957 in Afghanistan e nel 1959 in Iran. Nelle sue esplorazioni fu sostenuto sia da un’eccezionale forza di volontà che gli consentì di superare pericoli e affrontare fatiche notevoli, sia dall’eccezionale conoscenza di molte lingue e dialetti che gli permise di stabilire un contatto diretto con le popolazione e di superare le diffidenze.
Fosco Maraini, in Segreto Tibet, scrisse che a lui e agli altri membri della spedizione del 1948 non fu permesso di entrare nella città sacra di Lhasa e che poi, solo Tucci, come buddhista, ricevette il lam-yig, l’autorizzazione al transito. Nel periodo del suo insegnamento in India, Tucci era entrato in contatto con Rabindranath Tagore, poeta, filosofo, prosatore indiano di lingua bengalese, che gli aveva presentato Gandhi. Il Mahatma, a vederlo, raccontò poi l’italiano, sembrava «insignificante, vestito di una pezza di cotone tessuta da lui medesimo, le gambe e il torso nudi, occhialuto e calvo, sgraziato nelle mosse, di scarsa se non addirittura nulla sensibilità artistica». Tagore, invece, «aristocratico» e «ieratico» gli apparve «sospettoso del prossimo avvento della tecnica» e «spirito sommamente svelto e sottile».
Eppure, queste due persone, così diverse fra loro e che gli sembrava «non si comprendessero» lo colpirono profondamente. Con Tagore, ebbe un rapporto intenso, tanto da essere affascinato della sua passione per l’Italia. Per la verità, Tagore fu anche (e non ne fece mistero) un ammiratore di Mussolini e del fascismo anche se, poi, ridimensionò la portata di talune sue dichiarazioni in proposito, dopo il 1945. In quel periodo probabilmente, Tucci conobbe il patriota bengalese Subhas Chandra Bose, perché nel 1937 in una delle varie occasioni in cui il politico venne ricevuto da Mussolini, fu lui ad accompagnarlo in udienza. In una relazione sulla missione in India, inviata il 31 marzo 1931 al ministro degli Esteri Dino Grandi, Tucci propose la creazione di un istituto culturale finalizzato finalizzato ad agevolare gli studi dei giovani indiani in Italia e presso le istituzioni italiane, a promuovere la conoscenza dell’Italia in India, a mettere in contatto studiosi con interessi affini. Mussolini, che già accarezzava l’idea di dar vita ad un istituto per le relazioni con quella parte dell’Asia, ricevette in udienza il professore e rimase d’accordo con lui che avrebbe esaminato il suo progetto quando egli fosse ritornato dal viaggio di esplorazione che si accingeva ad intraprendere nel Tibet. Rientrato in Italia nel novembre del 1931, Tucci riuscì a coinvolgere nel suo progetto il presidente dell’Accademia d’Italia, Giovanni Gentile, che nel luglio dell’anno successivo ottenne da Mussolini l’approvazione definitiva.
L’IsMEO (Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente) nacque ufficialmente, nel febbraio 1933 con presidente e Tucci uno dei due vicepresidenti (l’altro fu G. Volpi di Misurata). Mussolini il giorno dell’inaugurazione parlò di “reciproca comprensione creativa” tra l’Italia e l’oriente asiatico. A seguito del caos del dopoguerra, l’IsMeo riprese le attività solo nel 1948, sotto la presidenza di Tucci che fondò un nuovo periodico “East and West”. Fu Giulio Andreotti a fornire l’impulso decisivo per la ripresa delle attività perché comprese perfettamente il valore scientifico e culturale di quelle missioni e il ritorno d’immagine che con esse ne aveva l’Italia. Tra i due, ci fu negli anni una corrispondenza epistolare.
Tucci nel 1971 in un discorso al Campidoglio disse che “Asia ed Europa sono un tutto unico, solidale per migrazioni di popoli, vicende di conquiste, avventure di commerci, in una complicità storica che soltanto gli inesperti o gli incolti, i quali pensano che tutto il mondo concluso nell’Europa, si ostinano a ignorare”. Più tardi nel 1977, ribandendo la necessità di considerare Europa e Asia accumunati da un unico destino, dirà: “in realtà si deve parlare di un unico continente, l’Eurasiatico”.
Felice Presta