Se un paziente muore in camera operatoria per errore del chirurgo, o di infarto perché il 118 ha tardato a soccorrerlo, spesso si parla di malasanità e partono le denunce.

Ma se qualcuno muore gettandosi nel vuoto come Giancarlo a Montesarchio – e come Paolo, Giuseppina e gli altri che hanno fatto la stessa fine da gennaio a oggi – quasi mai viene il dubbio che potrebbe trattarsi anche di mala-psichiatria.

Perché se un chirurgo lascia il bisturi nella pancia del paziente, il suo errore è visibile: ma di fronte agli effetti di una malattia invisibile come quella mentale, l’opinione pubblica rimane interdetta e sgomenta.

Così, nell’incapacità di analizzare gli elementi che concorrono a un suicidio, partono analisi immaginifiche: come nel caso di Giancarlo la cui fine è stata attribuita a “un male oscuro che ti scava nell’anima…”;  a una “…maledetta bestia che urlava dentro…”; “alla depressione, terribile compagna che difficilmente lascia libera la tua testa quando se ne impossessa…”.

In quest’analisi che azzera ogni elemento razionale, la depressione e la malattia mentale in genere, appaiono mostri incurabili: facendo credere che nella Salute Mentale, le cause del suicidio siano da cercare solo nel malato e nella sua malattia. Ma non è così.

Nella maggioranza dei casi, infatti, il disagio psichico si cura con successo, specie se affrontato con tempestività: per cui il suicidio è molto spesso il tragico epilogo di una depressione non curata o curata male. Insomma, anche gli psichiatri e i responsabili dei servizi di salute mentale possono sbagliare: e quando si sbaglia in psichiatria, le conseguenze possono determinare eventi tragici come il suicidio.

La morte di un depresso, dunque, NON è la conseguenza NATURALE e INEVITABILE della malattia, ma può essere anche conseguenza di un errore umano: rispetto al quale è necessario chiedersi se l’“errore” rientri nella casistica degli “eventi avversi”, o sia frutto di incapacità e di disfunzioni organizzative, di Centri di Salute Mentale ridotti a sciatti ambulatori, di scarsa attenzione verso i pazienti in carico.

E quando si scoprono episodi di mala psichiatria, cittadini e giornalisti hanno il dovere di segnalarli: sia perché le vittime sono troppo deboli ed esposte per farlo; sia per rispetto di quel personale che nei servizi pubblici si distrugge per sopperire a colpevoli negligenze, pur di salvare vite umane.

Perciò, poiché la vergogna che ancora avvolge la malattia mentale, spinge spesso familiari e pazienti a subire in silenzio soprusi e inefficienze, da oggi attraverso la nuova pagina Facebook “NO Salute Mentale a porte chiuse” (http://www.facebook.com/NoSaluteMentaleAPorteChiuse) sarà possibile chiedere aiuto alla nostra associazione e fornire segnalazioni, in maniera “riservata” e sicura: contattandoci nello spazio “S.o.S. Salute Mentale”  protetto dal “segreto professionale sulla fonte delle notizie”, di cui godono i giornalisti professionisti come il presidente della Rete Sociale, Serena Romano.

Solo facendo corretta informazione con il contributo dei cittadini, infatti, è possibile migliorare i servizi pubblici nell’interesse della collettività.

A cominciare dai servizi di Salute Mentale che hanno assistito per anni Giancarlo e decine di pazienti come lui nel bacino che fa capo a Montesarchio – il più popolato e a “rischio” del Sannio – dove i servizi sono stati gradualmente smembrati: partendo dall’inappropriata decisione di spostare il 50% dei medici nel Servizio Psichiatrico di emergenza al Rummo, lasciando i pazienti nel panico per la perdita, mai più colmata, del medico di fiducia; per passare al trasferimento del Dirigente; e infine allo spostamento della stessa sede del CSM ad Airola separandola dalla Sir rimasta a Bucciano, con ulteriore disservizio per i pazienti.

Così l’obiettivo di concentrare tutto il potere organizzativo in altre mani, è stato raggiunto: ma il motivo che lo ha giustificato – una maggiore efficienza del servizio – è fallito.

Oggi il servizio fornito solo di mattina e per qualche ora pomeridiana due volte a settimana, di fatto non esiste più, con disperazione dei pazienti e dei pochi medici rimasti ad operare come in trincea: impotenti di fronte alla sofferenza e all’impossibilità di assicurare una vera continuità terapeutica.

Anche di questi contesti, dunque, bisognerebbe tenere conto quando si racconta di un suicidio.

Firmato per la Rete Sociale : il presidente Serena Romano